Calcio. Il neobomber Schick, il soffio vitale tra passato e presente

Schick della Samp
Schick della Samp

Il pallone e la vita s’intrecciano, armoniche, nei cicli della Storia, animati da corsi e ricorsi, un po’ vichiani e un po’ castanediani. E accade così che, per perpetuare il soffio vitale, a un certo punto si debba passare il testimone, scegliere l’erede. Arduo compito per alcuni, per altri mera prassi e definitiva iniziazione dell’epigono.

Patrick Schick è uno dei prescelti. Un erede perfetto, forza centripeta pronta a raddrizzare un mondo (il calcio italiano) in caduta libera. E come ogni profeta, arriva in punta di piedi dal popolo che lo accoglierà: i Maya sampdoriani, già in prona adorazione del sacerrimo totem Muriel. Ma il culto, il rito non può limitarsi agli omaggi all’eterno nuovo Ronaldo colombiano. Serve un nuovo spirito libero. Ed eccolo che giunge, dal ventre di Praga. Lo abbraccia caloroso l’ospitale e devoto porto ligure, che da subito vede in lui un forestiero fuori dall’ordinario. Eppure di questo Schick appena approdato – e costato quattro milioni – si sa poco e nulla: ventenne, accudito dallo Sparta Praga e svezzato dai Bohemians 1905 e da sempre nel giro della nazionale ceca. Sette gol in ventisette partite. Ma il giovane non è solo statistiche e palmarès, è qualcosa di più e lo capiscono tutti senza indugio: è una ventata rivoluzionaria, la quadra dell’etica giampaolista. Il tassello da incastonare al fianco dell’innominabile Luis e del veterano Quagliarella.

L’esordio in A, il 21 agosto, coincide con la vittoria in trasferta contro l’Empoli. Ma il momento della Verità (svelata) arriva, deflagrante, il 26 ottobre. E dove, se non allo Juventus Stadium, tempio sacrificale ma non per questo non pullulante di tifosi blucerchiati, pellegrini speranzosi? La partita finisce in un sonoro 4-1 per le Zebre, ma quel gol della Samp è la scintilla di Schick. Il segnale, il nuovo inizio. Pressing alto (Schick perno centrale), discesa di Praet – fulminato sulla via di Damasco – e palla in mezzo. Lui è lì, glaciale, e infila Buffon dopo aver spiazzato la BBC con un solo movimento.

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Solo un mese dopo – un mese di minutaggio e di primi numeri d’alta scuola – inizia ufficialmente l’Età dello Champagne. Coppa Italia: nel 3-0 rifilato al Cagliari, Schick decide di salire in cattedra. Doppietta, assist, movenze funamboliche, nessun punto di riferimento, variazioni continue in un crescendo che sfiora l’estasi. Tunnel, corsa e classe. Il primo gol (quello del 2-0) è un gol da 9 vero: scatto bruciante e finalizzazione impeccabile a tu per tu con l’estremo difensore. Il gol del 3-0 invece è un gol da fantasista puro e anarchico: partenza sull’out di destra, dribbling secco di suola, scarico, convergenza e rete. L’immagine parla da sé.

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Il freddo dell’inverno lo fa salire sul trono del Ferraris-Machu Picchu, inondato dai fedeli che lo vedono segnare il 2-0 al Torino in un gol fotocopia di quello segnato ai cugini bianconeri: Linetty (delfino di Praet) lo serve a rimorchio e lui, l’uomo del momento (giusto), con la solita finezza umilia il tronfio Hart.

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Sempre nella sua domus aurea sigla il gol nella sconfitta contro la Lazio. Il suo sigillo, però, vale il biglietto: da trequartista perfettamente a suo agio, si libera da ogni pressing e con una staffilata trafigge il miscredente Strakosha. La folla è incredula.

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Al Bentegodi formato Game of Thrones la Samp perde ancora, ma il 2-1 lo firma, sempre nel finale, Schick: addosso ora ha la maschera della prima punta possente, che capitalizza il lungo traversone dell’adepto Torreira svettando alle spalle della difesa.

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Ma il mondo intero – ch’è come San Tommaso, e lo si sa – si convince davvero di chi ha di fronte solo dopo averlo visto nella vittoria casalinga di fine gennaio contro l’armata della Roma. Schick entra nel secondo tempo e firma il pareggio: Muriel spizza una palla velenosa e lui la raccoglie, con uno stop che è cinismo e magia da circo applicati al fiuto del gol del miglior Pippo Inzaghi. Teoria e pratica. In due movimenti Marte De Rossi è battuto (come il calcio d’Occidente) e Szczesny non può nulla, beffato dall’astuzia del suo peggior cliente. E non finisce qui: la partita finisce 3-2 e il gol decisivo arriva da una parabola divina di Muriel su punizione guadagnata dal Nostro.

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Entra in carrozza e segna anche in Samp-Bologna 3-1, sempre in formato killer sul filo del fuorigioco.

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E per la vittoria – sempre al Ferraris – di inizio marzo contro il Pescara, vedi sopra. Ancora una volta subentra nel secondo tempo, taglio fulmineo su servizio di Bruno Fernandes, stop che è metà del gol e poi centro. Nessuna pietà per il supplicante Bizzarri, che di alieni ne ha visti tanti, ma forse nessuno come lui.

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L’onda Schick è appena nata. Giampaolo gli dà solo gli ultimi quindici minuti nel Derby della Lanterna della settimana scorsa, deciso dalla prodezza di Muriel. Il pubblico invoca il ceco, che si fa bastare il tempo a disposizione e miete vittime sulla corsia di destra. Risulta difficile descrivere la serpentina ubriacante degli ultimi minuti, suola, colpi felpati e finte di corpo: mandati a spasso Laxalt, Cofie, Izzo e Ntcham, graziati da un tiro debole. Ma è sufficiente vedere quei tocchi per capire di cosa si parla, per sentire i brividi e per credere nella reincarnazione.

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Numero nove, rapace d’aria, condor spietato ed erede del miglior Cruz (con cui condivide l’essere il dodicesimo uomo, sempre determinante)? Raffinato danzatore, ala dal tocco vellutato, afflato etereo e ricordo dei 7 del passato? Trequartista mobilissimo, senza riferimento tattico, generoso tuttocampista a servizio della squadra, uomo tanto dell’ultimo passaggio quanto della finalizzazione? Schick è figlio di tutto questo, è l’uomo dai tacchetti della palingenesi. È la vitalità del meglio del passato che finalmente risplende, rivoluzionaria, nella fluidità del calcio moderno, ci piaccia o no. È la purezza che incontra il sacrificio, l’anarchia che incontra l’ordine, la quiete che si nutre della tempesta. “La vie c’est fantastique quando segna Patrick Schick”.

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Francesco Petrocelli

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