Libri. Noi siamo il Toro (di Stefano Radice): calcio e conflitto sociale nella città degli Agnelli

La copertina di "Noi siamo Il Toro" curato da Stefano Radice
La copertina di “Noi siamo Il Toro” curato da Stefano Radice

Il Torino non è una squadra come le altre. Il tifoso del Toro è diverso: ha una specificità tutta sua che lo pone alla stregua di un fedele, di un mujahidin. Quanto successe a Superga, in fondo, puntella una cesura qualitativa ineludibile. Con la caduta degli “invincibili” la storia granata si piega dinnanzi a un prima e un dopo che squarcia la storia di una città che è tra i simboli – sotto tutti i profili – dell’Italia tutta.

La tragedia del 4 maggio 1949 dà il via a un’adesione sportiva che ha del religioso e che rende tutto ciò che passa da Torino sacro e paradossale. Stefano Radice, curatore di Noi siamo il Toro (Eclettica, 2016), ci offre un viaggio insidioso, colto al punto giusto, ma obbligatorio se si vuole razionalizzare il fenomeno dell’adesione “trascendentale” di un popolo a una squadra. Un’esperienza che va di molto oltre i risultati dell’attuale campionato spezzatino e che può servire a comprendere trasversalmente cosa accade nel cuore dei veronesi, dei laziali, dei napoletani, dei catanesi, eccetera.

Se il calcio non è proprio tutto nella vita, può servire tuttavia a raccontare il resto. Basta respirare l’aria di piazza Castello, camminare sotto i suoi portici, per capire come il granata sia un colore evocativo, che spezza con il grigio sabaudo e il bianconero di “quegli altri” . La vetrina dello store è un magnete che attira gli sguardi, che scalda, che invoca il conflitto. Già – non dimentichiamolo per nessuna ragione al Mondo – Torino è stata una realtà che in se ha accolto tutte le contraddizioni della seconda metà del Novecento italiano. Industria, migrazioni, nuova urbanizzazione, sindacalismo, finanche terrorismo, e maggioranze silenziose.

Torino è la città degli Agnelli, un ingrediente ingombrante che qualcosa vorrà pur dire in mezzo a tanto piombo. Se la Juventus è “l’espressione calcistica, aristocratica e padronale, del potere capitalista”; il Toro è popolo e tradizione. Se il bianconero esprime il circensem dell’operaio che dalla Sicilia o dalla Calabria va nelle catene di montaggio Fiat; il granata colora l’identità della Torino che c’era anche prima dello sviluppo metropolitano. Scalare ogni anno la collina di Superga e partecipare al rito della chiamata di Valentino Mazzola e compagni, è un fatto religioso da leggere con le categorie sociologiche di Emile Durkheim.

Una seduta collettiva che rafforza l’appartenenza a una porzione di popolo che per necessità e virtù ha rifiutato tutto ciò che la Juventus ha evocato con ostentazione: “Ricchezza, visibilità mediatica, capacità d’influenzare le istituzioni calcistiche e la conseguente massificazione dei successi e dei tifosi”. La proiezione calcistica della conflittualità torinista si è manifestata in quel tremendismo tutto anni Settanta che ha segnato un modo d’intendere lo stare in campo in una narrazione tutta polmonare che annulla tecnica e tattica.

Certo, quella di oggi è un’altra epoca, dove la Juve – ed è un segno dei tempi – vede nell’Inter la propria contropartita, e il derby rischia di essere con il capoluogo lombardo e non più con i vicini di casa granata. Sarà forse un caso se il nuovo logo bianconero non sia stato presentato sotto la Mole ma proprio a Milano.

La squadra di Urbano Cairo e Sinisa Mihajlovic potrebbe essere davvero la fenice che rinasce dopo le ceneri del fallimento dell’A.C. Torino. Andrea Belotti potrebbe essere davvero il nuovo Paolino Pulici, chissà. Ma se la fede granata è – come spiega con scienza Stefano Radice – prima di tutto immaginario, il progetto di riportare in vita il Filadelfia è  sicuramente un rispettoso riconoscimento allo spirito di un popolo fatto di santi, poeti, operai e – diciamolo pure – tifosi.

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Fernando M. Adonia

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