StorieDiCalcio. Perché amiamo il ritorno di Zeman in serie A

Zeman
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Oltre i prevedibili e i sottomessi, immune alla gloria e ai titoli, torna il sovversivo Zdeněk Zeman, con tutto il carico dei suoi azzardi, sostituendo Massimo Oddo sulla panchina del Pescara. Ha firmato – con il presidente Daniele Sebastiani – un contratto fino al giugno 2018 che comprende il recupero di questo campionato (a -13 dall’Empoli e dall’eventuale salvezza) e la progettazione del prossimo. L’importante non è la squadra o la categoria, quello che conta è il progetto. Per questo Zeman ha accettato il ritorno, ci mette l’esperienza e il bel gioco, e la certezza che non ci saranno zero a zero, ma tanti gol. Il resto è divertimento, sapendo che il calcio comincia dalle ali, e per questo somiglia alle montagne russe: su e giù tra una metà campo e l’altra, tra vantaggi e svantaggi, gol fatti e subiti, con l’unica regola di farne uno in più. Non gli interessano le statistiche – che raccontano parzialmente le partite – e nemmeno il compiacimento dei poteri o delle tifoserie, no, gli interessa formare uomini e calciatori e a scorrere l’elenco di quelli scoperti e lanciati non c’è Moggi che tenga, ma lui risponderebbe che è volgare prima ancora che mediocre fare l’elenco dei propri meriti, delle proprie intuizioni, e soprattutto delle idee vincenti. Lui, che è ostinatamente legato al 4-3-3 e preso dall’inseguimento degli spazi vuoti, facendosi osservatore permanente, ricercatore incallito che pensa lento, fuma tanto e verticalizza più veloce di tutti. Il mondo di Zeman richiede pazienza e ascolto, quello che non aveva trovato a Cagliari e Lugano, ultime tappe del suo pellegrinaggio pallonaro, le sue idee entrano in testa e nell’anima col tempo, e proprio nel 2012 a Pescara si erano incarnate in una squadra al limite della perfezione che aveva macinato il campionato di B e regalato al futuro del calcio italiano tre grandi talenti: Lorenzo Insigne, Marco Verratti e Ciro Immobile. Zeman disegna futuro prima ancora che gioco, tattica, moduli, insegna a vivere e a fare i conti col proprio talento, e poi a cercare la migliore soluzione con il pallone tra i piedi. È un bene per il calcio che torni a sedere in panchina, è come se a Francoforte tornasse ad insegnare filosofia Herbert Marcuse, a Cinecittà Ugo Tognazzi, nei teatri Giorgio Gaber. «Perché Zeman è più avanti di Lou Reed» come diceva il Frengo di Antonio Albanese, chiamandolo ossessivamente Simpatia, in barba a Moggi e ai suoi amici che l’han dipinto come un perdente, nemmeno magnifico. Non ha bisogno di urlare, né vuole convincere nessuno, è fuori dalle logiche di mercato, il suo obiettivo è estetico-pedagogico: diverte e insegna; quando gli chiedono di ricordare il Foggia quello rivoluzionario messo in piedi con Pasquale Casillo, dice: «la gente si divertiva, e anche noi». Costruisce automatismi contro la malinconia domenicale, smonta e rimonta squadre, a volte riesce al meglio a volte no, quello che rimane alle sue spalle è sempre una strada diversa indicata a calciatori e società. Non cerca l’equilibrio, ma l’azzardo. È il creatore di incantesimi calcistici che hanno regalato spettacolo ed emozione, fuori dalla dittatura del risultato. Non è uno che ama perdere, come pure è stato raccontato, è uno che ha una scala diversa di obiettivi. Un allenatore d’avanguardia non può preoccuparsi, difendersi o essere sparagnino, ma deve creare un meccanismo d’accatto vincente, che finisce per dargli ragione, scoprire nuovi grandi attaccanti – l’elenco è lungo da Schillaci a Signori, da Vučinić a Boksic fino a Insigne e Immobile. Ha sovvertito l’assunto di Jorge Valdano: «spingere una squadra debole ad attaccare è come chiedere a un povero di risparmiare», l’ha fatto e con naturalezza, come se allenasse sempre dei campioni, e lo erano, solo che li vedeva solo lui, prima degli altri, che li han visti dopo. Adesso che sulle panchine della A ci son seduti suoi allievi, adesso che è “quasi” normale osare, e l’imperativo è giocare bene, il settantenne Zeman può tornare sui campi e dire come il dottor Frankenstein: «Avete visto? Si poteva fare». [uscito su IL MATTINO]

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Marco Ciriello

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