Politica. Julius Evola e la rivoluzione conservatrice spiegati a Donald Trump

Julius Evola e Steve Bannon, consigliere di Donald Trump

Nel contraddittorio profluvio di parole e argomenti, portati da commentatori nostrani e d’oltreoceano per interpretare l’inaspettata elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, è spuntato anche il nome di un pensatore italiano, tra i più improbabili in tale contesto: Julius Evola. In un articolo del «New York Times», intitolato Il pensatore italiano è un enigma per molti, ma non per Bannon, il commentatore Jason Horowitz indica il filosofo tradizionalista romano come uno dei riferimenti teorici di Stephen Bannon, sostenitore del “suprematismo” americano. Tesi, questa, assai fragile e senza credibile sostegno nelle fonti, ma soprattutto nella sostanza. Il profilo aristocratico del pensatore romano, trapassato nel 1974, ha davvero poco a che fare con il populismo dell’oggi, e tanto meno con l’elogio degli Stati Uniti, visti invece come apice della modernità, cioè del materialismo e dell’utilitarismo dominanti.

L’autore di Rivolta contro il mondo moderno è una figura originale della storia delle idee; meno importante di quel che pensano gli interpreti, ma più importante di quel che immaginano coloro che lo criticano o che non lo hanno mai letto. Il compianto Franco Volpi riconobbe Evola come uno dei filosofi novecenteschi più influenti in Italia, insieme a Benedetto Croce e a Giovanni Gentile. Va sicuramente inserito nel consesso più ampio degli autori novecenteschi della cosiddetta “Rivoluzione conservatrice” (definizione coniata da due grandi letterati, Thomas Mann e Hugo von Hofmannsthal, che lungi dall’essere tra i più significativi esponenti del movimento di idee, furono anzi due intellettuali “impolitici”), i cui ideali ebbero molti sostenitori, nell’alveo delle scienze storiche, filosofiche e della cultura in genere; basti pensare a Ernst Jünger, Martin Heidegger, Oswald Spengler, Carl Schmitt, Gottfried Benn, Rainer Maria Rilke, Max Scheler e a chi fu indubbiamente, per molti versi, il padre spirituale e l’antesignano di questo movimento, Friedrich Nietzsche, dal quale i rivoluzionario-conservatori mutueranno la propria “immagine del mondo” (Weltbild) basata su alcune fondamentali “idee guida”; tra queste, la concezione “sferica” della storia, opposta a quella “lineare” tanto cara ai progressisti. La storia non è da intendersi come progresso infinito e indefinito, bensì come un “eterno ritorno”; ciò significa, come ebbe a chiarire proprio Julius Evola, che «in ogni momento tutto è contenuto, presente, passato e avvenire coincidono», nella doppia accezione «di una rivolta contro un dato stato di fatto» e «di un ritorno, di una conversione, ragione per cui nell’antico linguaggio astronomico la rivoluzione di un astro significava il suo ritorno al punto di partenza e il suo moto ordinato intorno a un centro».

Si tratta di un conservatorismo che non si abbarbica al passato, ma si cimenta con il futuro, alla ricerca dell’origine. Il rivoluzionario-conservatore, infatti, non vive più solo nel futuro come il progressista, né soltanto nel passato come il reazionario; egli vive nel presente, in cui riconosce la potenza mediatrice che trasmette il passato all’avvenire. Come ben riassume Alain de Benoist nel suo La Rivoluzione Conservatrice tedesca, recentemente pubblicato dalla casa editrice Controcorrente di Napoli, questa visione del mondo (Weltanschauung) critica strutturalmente l’individualismo, che – espressione di una società che non è più comunità – mina le culture, distrugge le religioni, disintegra le patrie. Il liberalismo non esprime una società organizzata, ma una ratifica contrattualistica dell’esistente. Qual è il discrimine tra un reale cambiamento e un’operazione di rinnovamento superficiale che cela il mantenimento di vecchi equilibri? La cultura. Coloro che camuffano la conservazione dello status quo con una rivoluzione di chiacchiere sono protagonisti inconsapevoli della storia, inadeguati ai loro compiti e impreparati a gestire le proprie prerogative; i conservatori rivoluzionari invece sono coloro che agiscono avendo presenti le dinamiche storiche, politiche, filosofiche e sociali che li hanno preceduti. Quali potrebbero essere, le voci più significative di un vocabolario ideale di questi pensatori?

L’ideario rivoluzionario-conservatore

Radici. La perdita delle radici e dei legami, lo spaesamento e la solitudine, la vita labile e precaria che si agita insensata costituiscono il dramma della nostra epoca. Con Martin Heidegger scopriamo che la presunta universalità del pensiero appartiene sempre a una terra e a una lingua, testimoniando perciò della sua radicale finitezza; le parole di Simone Weil ne La prima radice sono definitive: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e misconosciuto dell’anima umana… l’essere umano ha una radice… Chi è sradicato, sradica. Chi è radicato, non sradica». Avere radici significa amare le proprie origini e stabilire consonanze a partire da chi ti è più prossimo.

Identità. L’individualismo è la filosofia che considera l’individuo come unica realtà e lo assume quale principio di ogni valutazione, astraendolo da ogni contesto sociale o culturale. Per questo motivo, non riconosce alcun status di esistenza autonoma alle comunità, ai popoli, alle culture o alle nazioni; mentre invece l’olismo esprime o giustifica la società esistente facendo riferimento a valori ereditati, trasmessi e condivisi. Il senso di appartenenza è un sentimento del vissuto; si coniuga quindi alla condizione comunitaria senza obbligo, per volontaria vocazione interiore.

Comunità. La dicotomia comunità/società è stata studiata da vari autori, a partire da Ferdinand Tönnies. Werner Sombart qualifica la comunità nel suo carattere olistico: è un tutto, la cui portata eccede quella delle parti; solidarietà e aiuto reciproco vi si sviluppano come bene comune. La società,  invece, si definisce fondamentalmente come somma d’individui; risulta dalla speculazione razionale e si ordina attorno all’idea di contratto, perché i suoi componenti decidono di vivere insieme sulla base non di comuni valori, ma di reciproci interessi.

Stato. Il fondamento della sovranità non è una necessità securitaria alla quale non si potranno porre limiti, tendendo per inerzia al dispotismo. L’autorità è invece legittima perché riconosciuta interiormente; è un principio di responsabilità e lealtà ripartito secondo i modi della sussidiarietà o della sufficiente competenza delle parti che si riconoscono nel tutto.

Spazio. Viviamo in epoca postmoderna. L’epoca moderna era quella degli Stati-nazione, che corrispondeva a quello che Carl Schmitt chiamava “il secondo nomos della terra”, iniziato con la scoperta del “Nuovo mondo” e con il Trattato di Westfalia e conclusosi con la seconda guerra mondiale. Il “terzo nomos” ha riguardato il periodo della “Guerra Fredda”, cioè la rivalità americano-sovietica. Oggi, nell’epoca postmoderna, siamo entrati nel “quarto nomos“, in cui gli Stati-nazione sono declinanti, mentre affiorano le comunità locali, le regioni e i grandi insiemi continentali. Il conflitto si manifesta tra l’unilateralismo e il multipolarismo, in una geopolitica tra forza egemone e realtà emergenti.

Tecnica – Martin Heidegger ne distingue due tipi: la tecnica “produttiva”, rappresentata da quella degli antichi Greci, che favorisce il corso-flusso della natura senza forzarla, sfruttandone l’energia senza ostacolarla; la tecnica “provocativa”, rappresentata da quella moderna, che sfrutta la natura forzandola, in quanto estrae energia da accumulare e da impiegare. L’essenza della tecnica è quindi Gestell (porre insieme), la totalità del porre tecnico che, asservita alla volontà di potenza, spinge a considerare le cose come oggetto di manipolazione, e in tal modo l’uomo cerca di manipolare sempre più gli oggetti, entrando in un circolo involutivo. Ma Heidegger ritiene che anche la tecnica sia manifestazione ontologica, in quanto porta alla luce qualcosa che prima era celato e quindi dipende non da un’iniziativa dell’uomo, ma dall’Essere e dal suo destino. Cogliere l’essenza della tecnica (Gestalt) significa perciò sottrarsi al nichilismo, che è solo una modalità del suo disvelamento.

Decadenza. “Pensare contro” significa dipendere da ciò che si critica. Il declino è sempre un punto di riferimento determinato dall’ideologia dominante. Per i Greci, solo l’eternità del Cosmo è reale. La storia è fatta di cicli, che si succedono alla stregua delle generazioni e delle stagioni. Se c’è salita e discesa, progresso e declino, è all’interno di un ciclo al quale ne succederà un altro. L’antidoto alla decadenza, insita nel processo di civilizzazione e nell’autocompiacimento della dissoluzione, consiste nel vivere il tempo come un eterno presente, immagine mobile dell’inviolabile.

Eduardo Zarelli

Eduardo Zarelli su Barbadillo.it

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