Libri. La vita di Edward Hopper fra pittura cinema e anticonformismo

"Nighthawks (I nottambuli)"
“Nighthawks (I nottambuli)”

Dipingere la luce del sole. È davvero possibile che l’intera poetica di un autore, di fama internazionale peraltro, sia riconducibile a questo ingenuo, a tratti infantile, auspicio? Se comprendiamo ciò a cui Edward Hopper intende alludere con questa espressione, la risposta – affermativa – non ci stupisce più. Perché il pittore, nella luce del sole, non vede un mero fenomeno sensibile e contingente, bensì la concretizzazione visiva di quella fonte primaria e universale che proprio nel mondo quotidiano si rende paradossalmente accessibile. Questo “fenomeno originario”, per impiegare un calco goethiano, è la parte che risplende del tutto, come già insegnava il poeta inglese William Blake: «Vedere un mondo in un granello di sabbia, / e un cielo in un fiore selvatico, / tenere l’infinito nel palmo della tua mano / e l’eternità in un’ora».

L’eternità a cui Hopper ha voluto consacrare la propria metodica arte si rende così vibrante proprio nel corpo ondulatorio della luce. Di quella luce che affascinava l’artista da bambino, sbattendo sul lato della sua casa nella provincia americana della East Coast. Lo racconta efficacemente, con una dovizia di particolari che non spegne mai la sua prosa accattivante, Ilaria Floreano, nel suo Volevo dipingere la luce del sole. Vita di Edward Hopper tra pittura e cinema, recentemente pubblicato per i tipi di Bietti.

La copertina del volume su Hopper

Questa monografia rincorre la sfuggente personalità dell’artista statunitense individuando almeno quattro linee interpretative che si dipanano intrecciandosi: le ispirazioni culturali; la contestualizzazione storica della sua poetica entro il magmatico milieux dell’immaginario collettivo occidentale; le vicissitudini biografiche, con particolare attenzione per il rapporto di odi et amo con la moglie “Jo”; infine, la contaminazione con il cinema, hollywoodiano ma non solo. Se per l’approfondimento di ciascuno di questi topoi non ci si può esimere da un serio confronto con il ben documentato saggio, può essere interessante tirar qui le somme di questi nodi proficuamente aggrovigliati, per farci un’idea generale di Edward Hopper. Il quale, da questa monografia, emerge in una fisionomia chiaroscurale che è in fondo l’emblema principe di questa nostra modernità. Hopper che, infatti, ama i grandi della tradizione europea – da Vermeer agli impressionisti, dallo scettico Montaigne ai poeti francesi Rimbaud e Verlaine – è nel contempo influenzato radicalmente dai nuovi mezzi espressivi del Secolo Breve, fotografia e cinema in primis; il cantore degli U.S.A., che ha reso iconiche e inconsciamente attive nella nostra creatività gli scorci dell’America più moderna – stazioni di benzina deserte, strade vuote, negozi illuminati dal neon, case vittoriane –, è anche un solitario flâneur, nonché un attento custode di un’idea tradizionale di pittura: figurativa, meditata, comprensibile nell’introspezione e nel raccoglimento, di contro alla moda a lui – e a noi – contemporanea, ispirata a un’arte astratta, concettuale, sperimentale e infinitamente riproducibile (si pensi ad Andy Wharol).

Questo anticonformista, incapace tuttavia di recidere completamente i ponti con il proprio retaggio puritano, solitamente silenzioso e meditabondo, piuttosto iracondo, a tratti violento con la moglie verso cui manifestava d’altra parte slanci di affetto sincero, ha guardato all’America del Novecento calando lo sguardo nelle sue profondità più insondate. Lo ha fatto con il suo tratto cinematografico, cogliendo impietosamente l’alienazione e la nausea, per dirla con Sartre, che albergavano nei cuori dei suoi concittadini. Di quegli statunitensi che, ancor oggi, proiettano la propria autocoscienza, con tutte le sue contraddizioni, sugli schermi del cinema. La Settima Arte, che appassionava e stimolava il pittore di Nyack e che dalla sua poetica è stata profondamente influenzata, è il medium che meglio veicola, più o meno consapevolmente, la sua visione del mondo. Una prospettiva, questa, fatta di immagini, figure e tagli che nella loro forma e allusività simbolica si manifestano in molteplici contesti, aprendo infiniti squarci sul moderno e sul suo Zeitgeist. Squarci che risuonano in modo evocativo per l’astante contemporaneo che, inevitabilmente, in interiore homine, molto condivide col pittore statunitense. Siamo tutti, almeno un po’, hopperiani – questo ci rivela, in fondo, Ilaria Floreano.

*Volevo dipingere la luce del sole. Vita di Edward Hopper tra pittura e cinema, Ilaria Floreano (Edizioni Bietti, Milano 2016, pp. 290, € 20)

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Luca Siniscalco

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