Libri. Emil Cioran e le “Divagazioni” e le sofferenze di un esule romeno

Cioran
Cioran

I lettori affezionati di Emil Cioran sono accontentati. Un nuovo volume degli algidi scritti del filosofo e letterato romeno è a loro disposizione, grazie alla meritoria pubblicazione per i tipi della Lindau editrice di Divagazioni (euro 14,00). Per avere accesso alle tematiche in esso presentate, è bene muovere dai commenti che lo scrittore rilasciò in diverse interviste a proposito del libro biblico della Genesi: l’esule romeno a Parigi, fiancheggiatore della prima ora della Guardia di Ferro, amico di Eliade e Ionesco, la cui visione del mondo era assai prossima a quella del massimo teoreta transilvano, Costantin Noica, considerava l’episodio della Genesi, capace di dischiudere la reale condizione degli uomini in questo mondo. Situazione, quella umana, connotata di negatività, in quanto l’atto primordiale della creazione ha prodotto un’ingiustizia ontologica. Per Cioran il peccato originale non è, quindi, atto di fede, ma “immagine mitologica”. Ciò rese il suo atteggiamento nei confronti del cristianesimo, fondamentalmente ambiguo. In alcune opere sembra avvicinarsi ad un cristianesimo misticheggiante, in altre pare lontano anni luce da qualsiasi posizione fideistica. Cioran non era certo personaggio che potesse consolarsi con i soporiferi fumi della fede, di qualsiasi fede. Forse, la sua fu una religione, in senso etimologico, del nulla.

Il libro che presentiamo, finora uscito solo in Romania con il titolo Razne, fu redatto tra il 1945 e il 1946. Probabilmente si tratta di uno degli ultimi testi scritti dall’esule nella lingua d’origine, prima della scelta di scrivere esclusivamente nella lingua acquisita, quella francese. Lo attrasse la sintassi strutturata sullo spirito di geometria cartesiano, che la rendeva ideale per la saggistica speculativa. In ogni caso, fin dal titolo è possibile evincere i contenuti di questo volume. Razne  può essere tradotto dal romeno con “fare o dire cose a vanvera”, o ancor meglio con “digressione”, “divagazione”. In queste pagine, infatti, Cioran mette in atto la definitiva deviazione dal cammino naturale che sino ad allora aveva seguito nella sua ricerca, quello filosofico-letterario, convinto della impossibilità stessa di costruire il sistema e, soprattutto, di dare espressione linguistica al reale. Aveva già mostrato, in precedenti composizioni, un’evidente empatia per l’aforisma, per la possibilità ad esso consustanziale di far vedere, mostrare, nel “finito” linguistico che lo costituisce, l’improvviso baluginare dell’infinito che anima enigmaticamente la molteplicità del mondo. In Divagazioni dice, innanzitutto a se stesso e al mondo delle lettere, l’impossibilità di dare forma espressiva compiuta all’orrore che traligna dalla realtà.

Tema trainante di queste pagine è il legame tra parola e sofferenza.  Rispetto alle prove letterarie successive, eleganti e stilisticamente rigorose, questo libro è connotato da un certo disordine argomentativo. Obiettivo confessato in modo caustico dallo scrittore: “Spingere il filosofare fino all’ultimo vocabolo, all’ultima parola dell’inefficacia e del ridicolo” (p. 101), al fine di far emergere la dimensione insensata, caotica della vita. Crediamo, per questo, possa valere anche per il Cioran di Divagazioni, la definizione coniata dal germanista Ferruccio Masini per Nietzsche, “Scriba del caos”. Quella del romeno è qui scrittura, a tutti gli effetti, del caos, atta a mettere in discussione la superbia della parola, sulla quale è stato costruito il logo-centrismo occidentale. La scrittura cioraniana si fa prossima al silenzio, che ogni parola veritativa dovrebbe custodire in sé, è possibilità sottratta all’uso comunicazionale del dire, aperta all’estasi, “doppio intensivo del silenzio” (p. 10), come ricorda in prefazione Costantin Zaharia. Per tali motivazioni, il libro appare come una sorta di testo-cerniera, sospeso tra due fasi della creatività dell’autore, quella che si espresse in romeno e quella successiva in francese. Quindi, Divagazioni risulta estremamente importante per cogliere la discontinua continuità dell’ iter speculativo del romeno.

La nostalgia della Romania trasfigurata, ideale condiviso da un’intera generazione di intellettuali transilvani, così come l’eco risuonante del romeno d’origine, seguiranno il nostro autore per tutta la vita. La sua sarà un’esistenza lacerata non solo dall’esilio, ma dalla scoperta che la presenza umana nel mondo è del tutto arbitraria. Qualsiasi uomo lucido (idealtipo antropologico di Cioran), ha immediata contezza di tale situazione, nel momento in cui, lasciatosi alle spalle la fatica del divenire, incontra situazioni emotive liberatorie: la solitudine, innanzitutto, ambasciatrice delle  elette compagne, noia e malinconia, e il silenzio che consente di porre in atto la scoperta più significativa, il vuoto. Quest’ultimo rende manifesto che qualsiasi parvenza di positività negli enti mondani è inganno. Con Leopardi, Cioran sa che “le cose non sono mai quello che dicono di essere”. Il positivo è la maschera del negativo, della sua debordante potenza. A questo punto, nell’uomo che sa, subentra la rinuncia a trovare effimere giustificazioni all’universo tutto. Ma, all’improvviso, come in un lampeggiamento intuitivo, riemerge una certezza, l’io “Il mistero dell’io è più schiacciante di tutte le oscurità e più insondabile di tutto ciò che la teologia ha escogitato sul piano dell’insolubile. La mente ci dice che l’io è nulla, e quest’io ci risponde…che egli è tutto” (p. 52).

Come non intravedere in tali disvelative parole la consonanza con la scoperta dell’Io compiuta negli anni Venti da Julius Evola, nel momento in cui, su questa certezza, si apprestava a costruire l’  idealismo magico, filosofia della libertà e della responsabilità? Anche Evola, come Cioran, pensò per un certo periodo al suicidio, ma i due non lo misero in atto. Evola calando l’individuo assoluto nella realtà storica e metastorica del mondo della Tradizione, Cioran convertendo il sentimento della inutilità propria e del genere umano presentate in Divagazioni, in altre amarezze e inconvenienti, capaci comunque di dischiudergli nel reale la meraviglia del nulla e non soltanto il suo volto terrifico. In ogni caso, come egli scrive con chiarezza nelle pagine di questo libro: “Certamente la vita non ha alcun senso; ma è ancora più certo che noi viviamo come se ne avesse uno”. Per questo il suo pensiero, come si evince anche in Divagazioni, non fornisce alcun facile alibi a rinunce ed abbandoni. Al contrario! Se il mondo non ha senso, non resta che dargliene uno attraverso l’azione.

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Giovanni Sessa

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