Libri. Eraldo Pecci e l’epopea granata “Il Toro non può perdere”

pecciSgombriamo subito il campo da equivoci. Sono tifoso del Toro quasi dalla nascita. Da quando, bambino, mio nonno mi portava sulla canna della bicicletta raccontandomi le imprese del Grande Torino. Conosco a memoria la formazione dello scudetto del ’76 e per me i nomi di quei ragazzi suonano familiari come i padri della patria o gli eroi dei fumetti e dei romanzi che hanno accompagnato la mia vita. Tutto ciò per sottolineare che questo articolo sul libro “Il Toro non può perdere” di Eraldo Pecci (Rizzoli, prefazione di Gianni Mura) non è una normale recensione. E neppure una recensione neutrale, equilibrata, professionale. Tant’è vero che contravvengo a una delle regole basilari del giornalismo, che imporrebbe – a meno di essere Montanelli – di non scrivere mai un pezzo in prima persona.

Fatte le dovute premesse, cercherò di spiegare per quale motivo il volume di Eraldo Pecci – sangue romagnolo, di Cattolica, che nel corso della sua carriera ha militato anche in Bologna, Fiorentina, Napoli e Vicenza – è un bel libro sul calcio, che merita di esser letto anche da chi non è tifoso granata. Forse vi perderete qualcosa, non coglierete certe sfumature accessibili soltanto a noi iniziati alla religione torinista, ma vi godrete comunque un ottimo flashback sul football italiano degli Anni Settanta. Un tuffo emozionante e nostalgico, per chi ha più di quarant’anni. Per i più giovani una scoperta quasi archeologica del “piccolo mondo antico” di un calcio che non c’è più.

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Pecci racconta in 280 pagine l’annata irripetibile del Toro di Gigi Radice, che nella stagione 1975-76, da outsider assoluto, riuscì nell’impresa di vincere il campionato italiano rimontando la Juventus di Carletto Parola. Fu un evento sportivo eccezionale, ottenuto grazie alla lungimiranza di una società solida e oculata, a un mix di giocatori esperti e giovani sconosciuti, alle idee innovative di un allenatore che guardava all’Olanda del “calcio totale” di Rinus Michels.

Ma per fortuna il libro di Pecci non si limita ad analizzare i contorni agonistici di quell’annata. Le pagine più interessanti, anzi, sono proprio quelle in cui l’ex giocatore narra il “dietro le quinte”, descrive i piccoli personaggi che si muovono (forse sarebbe meglio dire si muovevano, oggi è tutto diverso) dietro una squadra di professionisti: massaggiatori, magazzinieri, segretarie, accompagnatori, autisti, dirigenti minori, soci, tifosi. Una fauna variopinta e composita, che a suo modo forniva un contributo importante alla quotidianità di un club calcistico.

Come “Ramsey”, l’anonimo tifoso di mezz’eta che si materializzava ogni sabato sera in ritiro e “dava” la formazione a Radice, frutto delle sue elucubrazioni nel corso della settimana. Una prassi già sperimentata negli anni precedenti con Giagnoni. All’inizio Radice lo guardava come un marziano, ma poi – essendo rigido e severo come un tedesco ma superstizioso come un napoletano – decise che il tizio portava fortuna (quell’anno il Toro vinse 14 partite casalinghe su 15) e accettò di buon grado la presenza dello strano personaggio.

Dalle pagine di Eraldo Pecci emerge il ricordo di un calcio ancora ruspante, non deformato dal denaro, dal divismo né dal professionismo esasperato di oggi. Un ambiente in cui poteva capitare che tre ventenni come Pecci, Gorin e Bacchin dividessero la stessa casa, come studenti universitari. Che le trattative per in rinnovo del contratto avvenissero in un quarto d’ora, tra giocatore e vicepresidente, di sera, senza avvocati né procuratori:

«Buonasera Pecci, quanto vorrebbe guadagnare?».

«Avevo pensato a…» e sparai alto. Molto.

«Va bene. Intanto la ringrazio per aver giocato fino a oggi senza contratto».

Pensavo: «Dove ho sbagliato? Un sì troppo veloce, il suo. Dove mi sono fregato?».

Eraldo Pecci scrive bene, è spiritoso e leggero. Alterna in rapidi capitoletti le fasi di gioco, i ritratti dei compagni di squadra, i ricordi dei tanti personaggi che ruotavano intorno alla squadra: tifosi, giornalisti, sponsor a livello poco più che artigianale. E naturalmente anche la descrizione della Torino ancora plumbea, operaia e “manichea” dell’epoca: «La differenza che c’è tra le città d’Italia dove ci sono due squadre e Torino è che a Torino ci sono “loro”, i gobbi. A Milano succede che in certo periodo vada meglio il Milan e in un altro l’Inter. Succede così anche a Roma tra Lazio e Roma o a Genova tra Genoa e Samp. A Torino no, a Torino ci sono “loro”, che sono padroni del giornale, padroni della tv, padroni della banca e tramite la Fiat, padroni della città».

Ne “Il Toro non può perdere” ci sono pagine dedicate ai famigerati ritiri estivi e pre-partita, che servivano a cementare l’unione fra i giocatori in un allegro clima da caserma, fra gavettoni, battute, partite a carte e proiezioni di film (lo schermo era un lenzuolo e il proiezionista era Pulici, guai a chi gli toccava l’attrezzatura); alle cene al ristorante Urbani, vicino alla stazione di Porta Nuova, che era un po’ la mensa di quelli del Toro, dove potevi trovarti nello stesso tavolo con Primo Nebiolo, Livio Berruti, Franco Arese, Sandro Ciotti, Luca di Montezemolo e persino Umberto Tozzi. Fu lì davanti che un giorno la riserva Rocccotelli, detto Cocò, sorprese un ladruncolo che gli aveva rotto il vetro dell’auto per rubare l’autoradio. «Tornò dopo un paio di minuti con il malcapitato stretto per il collo», ricorda Pecci. E alla fine lo lasciò andare dopo essersi fatto risarcire il danno.

Il libro di Pecci fa ridere (imperdibile il capitolo in cui lui e Pat Sala, “ragazzi di campagna”, si fanno abbindolare dalle ballerine di un night di Roma), fa sorridere, provoca nostalgia e talvolta anche un po’ di malinconia. Quando ad esempio ricorda i molti amici che non ci sono più, a partire dal mitico presidente Orfeo Pianelli, l’uomo che per scaramanzia portava lo stesso gessato blu in tutte le partite (e le stagioni). Eraldo, detto “Piedone”, racconta con delicatezza l’ultimo incontro, nel 2005, con il “suo” presidente: «Magro come un chiodo, con le ossa pronunciate e quegli occhioni vigili, spalancati, che mi dicevano: “Grazie di essere qua, della tua amicizia, di tutto, ma è tempo che io vada, non ho più voglia di nulla, lasciatemi in pace!”. La mano che gli presi e gli strinsi quasi non rispose al contatto».

E l’ultimo capitolo è un distillato puro di granatismo: «Tutti insieme ci siamo trovati dentro una concatenazione di eventi, dentro una storia, una magia che, a mio avviso, sintetizza un concetto: il Toro agisce in questo mondo ma non è una cosa terrena. Può non vincere il campionato, può retrocedere, può fallire, sopportare presidenze che passerebbe anche la mutua, sopportare barbari che distruggono mirabili settori giovanili e stadi leggendari, subire cattiverie e valanghe di gol, anche nei derby, ma non può perdere. Il Toro non può perdere».

@barbadilloit

Giorgio Ballario

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