Libri. Il grande amore di Giuseppe Sgarbi: “Lei mi parla ancora”

COP_10337_Sgarbi_Lei_MI_Parla_OK.qxd:Layout 1Un Orfeo che fa del cimitero di Stienta la sua Ade. Ogni giorno percorre la strada che lo porta alla sua Euridice, ma il sentimento è così presente da non trarlo in inganno. Tranello, che Giuseppe Sgarbi, scongiura in quel suo sguardo fisso, lanciato al ricordo incessante di lei. Non si volta indietro, poiché Rina, la sua Euridice è con lui sempre e il camposanto è solo uno dei tanti luoghi dove lei lo aspetta. Giuseppe è sapiente e sa che, guidando lo sguardo in una direzione proibita, il giorno dopo e quello dopo ancora, sino alla fine dei suoi giorni, non potrebbe tornare nell’unico posto che custodisce il suo grande, grandissimo amore. Il percorso che divide Giuseppe da Rina figura l’istante palpitante, dentro il quale l’uomo rivive lo stesso pulsare dei primi appuntamenti. L’emozione e la paura di non trovare l’amata, una donna antica ma selvaggia, difficile da trattenere e d’amare; il terrore di non vederla apparire poiché volata in un altro universo più sconfinato da esplorare.

E più mi avvicino al cimitero, più l’emozione sale. È così forte che mi ricorda le prime volte che ci vedevamo. Quando ci davamo un appuntamento, non sapevo mai se ti avrei trovata lì ad aspettarmi o se avevi capito in che razza di guaio ti stavi per cacciare e avevi visto bene di mollare tutto e sparire.

In un momento in cui tutto si brucia senza ardere, dove la parola corteggiamento viene rimossa dal dizionario poiché poco “glamour” e l’unico progetto tra due esseri umani verte sulla direzione di quale letto vivere quella notte, quell’unica notte, giunge da lontano una struggente lirica d’amore. Un inno, che nei versi di Giuseppe Sgarbi, in “Lei mi parla ancora” rappresenta uno squarcio di luce, finanche una salvezza da un mondo senza pudori, se non nella pronunzia della parola a-m-o-r-e. Il libro, scritto in prima persona, segue le discontinue tracce del cuore, in una prosa di lievi rintocchi e pentagrammi di memoria. Il lutto per la perdita della donna amata si riavvolge in un’opera, che nel ricordarla, si fa la più vigorosa ode alla moglie Rina e al sentimento tutto. Il canto del diletto custodisce magica maestosità; parole intrise di sentimento travalicano la vita, pervengono alla morte per poi tornare ancor più carice dal suo cantore. Nei ricordi di Giuseppe Sgarbi, tutto il circostante prende corporeità, la natura e le cose partecipano alla sua mancanza. Gli alberi si piegano al dolore, i lampioni si fanno ancora più ritti per fare luce sul suo sentiero. Dentro uno strazio, l’universo si congiunge all’uomo. Lo stesso fiume, usciere di tutti i segreti dell’essere umano e di fatto anche quelli di Giuseppe e Rina, piega la sua ansa nel verso di una lacrima che fluisce nelle sue acque. Un tempo quell’ansa prendeva la disposizione di un sorriso, quello dell’amata; oggi il fiume sa, e silenzioso trattiene un guizzo oltremodo inopportuno.

Separazione di Munch

La natura e le creature vivono la separazione di un amore antico poiché fuori dal tempo, dal nostro tempo. Come nella tela “Separazione” di Edvard Munch, la pennellata di un dolore inconsolabile nella totale inabilità di accogliere pacatamente la fine del più grande dei sentimenti. Dentro colori innaturali, l’uomo azzarda il primissimo orientamento in una nuova strada, ma l’unica via percorribile, emblema di un fiore insanguinato dal colore del cuore, è quella della rievocazione. La reminiscenza è l’antidoto alla separazione spietata, nella tela del pittore norvegese. L’opera è un viaggio nella memoria di un grande amore. Passione che non nasconde anche molti timori, la contemplazione si mescola alla trepidazione di trovarsi al cospetto di una donna non comune. Lui parla, scrive e le spiega anche segreti ritenuti inconfessabili in vita:

All’inizio ho avuto paura, sai? Dico sul serio. Perché ho capito che ‘spaccatutto’ lo eri davvero. Non nel senso che credeva Sandri, però. L’esuberanza del carattere, l’ambizione di un’intelligenza tutt’altro che ordinaria non c’entravano. Non c’entravano affatto. ‘Spaccatutto’ lo eri per natura. Una natura incontenibile. Come quella di un gas che si espande a occupare tutto lo spazio disponibile. E, esattamente come un gas, saresti esplosa se fossi stata compressa in un ambiente troppo piccolo. Ti confesso che, in qualche momento, la follia mi ha sfiorato e ho temuto di rimanerne contagiato. Per fortuna, però, qualcosa mi ha aiutato a non perdere l’equilibrio, a non farmi disarcionare.

E poi c’è la cornice di piccole gelosie mai confessate, come quella dell’incontro della Signora con Gheddafi; lei ne riporta a casa l’entusiasmo, un racconto di quanto il “re” libico sia rimasto affascinato da questa creatura Italica, affascinante, calamitante: Caterina Cavallini.

Ora te lo posso dire: raramente mi sono sentito così geloso. Era diverso dalle altre volte. Le altre volte erano stati gli altri a manifestare passione per te. Questa volta eri tu.

La passione struggente, che scorre in queste pagine, è tanto più forte, per quanto siano diverse le creature protagoniste di questa fiaba reale. Uniti dalle dissonanze caratteriali e di pensiero, lui terra, lei cielo; insieme in grado di abbracciare al contempo due universi. Lei gli chiede di volare, lui non sa se ne è capace, ma la ama di un amore puro e il sentimento porta fintanto in alto, sino a librarsi. A coloro che domandano all’uomo il segreto di un amore così duraturo, Giuseppe risponde in maniera semplice, poiché il battito di cuore è unico e definitivo:

Molte delle persone che oggi sono passate di qui mi hanno chiesto quale sia stato il segreto di un amore così lungo. A dire la verità, loro parlavano di matrimonio. Hai fatto caso che nessuno usa più la parola amore? Secondo me è più paura che pudore. D’altronde, il pudore è morto da un pezzo, mentre la paura non è mai stata così viva. Forse è proprio la scomparsa del pudore che le ha fatto alzare la testa. È la felicità che fa paura. Forse perché ci sembra sempre troppo breve. Sappiamo che passerà presto e temiamo il dolore che ci lascerà. Il dolore, invece, lo temiamo meno. Sembra un paradosso, ma è così. Perché lui non ci delude mai, dal momento che da lui non ci aspettiamo mai niente di buono. Sia come sia. Credo che il diritto di usare la parola amore ce lo siamo guadagnati sul campo. Non lo pensi anche tu? E poi: di cosa dovrei avere paura, ormai? Di raggiungerti? Beh? E quale sarebbe il danno? “Il segreto è uno solo”, ho risposto, “avere senza possedere.” C’è solo un modo per non rischiare di perdere qualcosa o qualcuno cui teniamo: non possederlo. Mi guardavano facendo sì con la testa, ma si vedeva che non capivano. Non capivano che tu e io, Caterina, non ci siamo mai persi perché non ci siamo mai posseduti. Per noi, amarsi ha sempre voluto dire essere, non avere. Essere l’uno per l’altra: non l’uno nell’altra. La differenza c’è. Eccome. Ed è lei che ci ha portati fino qui.

Un soliloquio d’amore che in poche parole potrebbe figurare un trattato, un’analisi perfetta che svela il mistero dell’unione di due creature così diverse e ugualmente vicine. Segreto che anche epifanie di “Cristallizzazioni” di Stendhal non sarebbero in grado di svelare. Torna in queste preziosissime pagine l’elegia di una donna selvatica, non un luogo fermo dove far accomodare la propria staticità, al contrario una corsa continua; impresa di gambe ma soprattutto di testa. E in tale discesa nel ricordo, sfugge un’associazione del Truman Capote in “Colazione da Tiffany:

Chi si concede il lusso di amare una creatura selvatica, finisce col guardare il cielo.

E allora è importante rinunciare all’atto egoistico: abbandonare l’idea di addomesticare qualcuno che non vuole, perché la propria natura non si piega all’ammansire, fosse pure nelle vesti di una carezza. Ma anche colei che è grande nel suo essere selvaggia è capace di piangere. E quella volta che la vede piangere, l’unica; quelle lacrime assumono un valore inestimabile. Chi corre nei boschi è temerario, ma non incoscientemente privo di paura. Il timore di non essere in grado, quei tentennamenti che non sono visibili nei forti. Poiché mascherati, ma scalciano fragilità umane. Lo sgomento di non riuscire a ricoprire un ruolo e innanzitutto di saperlo fare bene. Poiché ai selvaggi la mole di forza richiesta è doppia, forse tripla. Ma Caterina Cavallini vive solo una fragilità, quella di divenire madre e la paura di non riuscire; angoscia che sarà poi oltremodo scongiurata con gli anni.

La creatura selvaggia vive nella libertà; libertà di pensiero e soprattutto di parola. Non un rospo ingoiato per una mente veloce, un pensiero difficile da seguire e inseguire, poiché sempre avanti. Non dice “ti amo” anche se ti ama di un amore immenso, nasconde il sentimento nell’ironia e quel “ti amo” diviene “Ti xe proprio veneto”. Il “ti amo” più grande, quello detto nella volontà di celare, poiché a volte si ha paura che nella parola, tutto si perda. E allora la si deforma, la si altera, la si cambia in una battuta che vale più di cento serenate.

L’opera è una struggente e infinita lettera all’amore, quello di una vita, raro e glorioso. Un invito a sconfiggere la paura del bello, perché la bellezza è anche paura.

Mi hai amato di un amore grande. Talmente grande che, solo a pensarci, mi gira la testa. E non so se sono mai riuscito a ricambiarlo fino in fondo. Temo di no. Perché tu eri totale in tutto, anche nell’amare.

*”Lei mi parla ancora” di Giuseppe Sgarbi, Skira Editore, pag.118

@isabellacesarin

Isabella Cesarini

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