Il confronto con le attuali interazioni tra spazi pubblici ed arte contemporanea si fa spietato, basti notare l’irrilevanza della “Mela reintegrata” di Michelangelo Pistoletto davanti alla stazione centrale, oppure l’ironia, per lo meno iconoclasta, di Maurizio Cattelan, col suo sprezzante dito medio (L.O.V.E.) in Piazza Affari. Contenitore e contenuto, dunque, in una simbiosi talvolta straniante che avrebbe potuto espandersi logicamente a tutta la rete urbana. La “città totale”, in grado di integrare le stratificazioni storiche (romanico, gotico, rinascimentale, barocco, neoclassico, eclettico) alle esigenze post-rivoluzione industriale (oggi a quella digitale?), quella con i “filari” di fabbriche fumanti ed il sol dell’avvenire immancabile all’orizzonte. Sogno in fondo platonico, da La città del sole di Tommaso Campanella a Heliopolis di Ernst Jünger, che con un rilancio arditissimo i futuristi si impegnarono a definire, con risultati più vicini all’abbozzo estetico che alla pianificazione realizzativa.
Impegno rivoluzionario e nuova visione totalizzante, Sant’Elia c’era dentro fino al collo. Sposò la causa interventista, futurista della prima ora, impavido in trincea al fianco di Umberto Boccioni e Filippo Tommaso Marinetti, il giovane architetto comasco trovò la morte a Monfalcone, il 10 Ottobre 1916, durante un assalto patriottico. Qui infatti non possiamo far paragoni con l’attualità, visto che tratteggiare il profilo dell’intellettualino sognatore, dell’architetto aduso alla chiacchiera citazionista, della mezzasega in baffetti da sparviero e caviglia in bella mostra, o dell’annoiato antagonista foraggiato da mamma e papà, porterebbe null’altro che a dover reprimere un inelegante moto di ripulsa. D’altronde anche l’abuso del termine “utopia”, riguardo alla poetica costruttivista di Sant’Elia, è sovente vincolato all’irrealizzato. Impossibile per la morte del protagonista, inattuabile per il fallimento dell’idealizzato Uomo Nuovo.
Meravigliosi progetti, bozzetti, disegni, schizzi, che restarono su carta, oppure destinati a fornire ispirazione scenografica per il cinema. Si pensi per un attimo al film Metropolis (1927) di Fritz Lang o a certi manga apocalittici come Conan il ragazzo del futuro (1981), a quella suggestione spaziale ordinatrice, collettivistica, lontanissima dalle titaniche masturbazioni degli architetti contemporanei (l’edificio feticcio – non la città nel suo insieme – che sale alieno, autoreferenziale, eventualmente replicabile altrove, nell’effimero mondo liquido). L’utopia, per restare nel capoluogo lombardo, si palesa nel mancato – e forse improponibile – sviluppo di un organico assetto urbanistico, inevitabilmente scontrantesi con le marcate divisioni tra quartieri, quasi compartimenti stagni, con le peculiarità dei microcosmi ereditati dalla Storia, soprattutto medievale. Ma sarebbe un errore ascrivere la progettualità di Sant’Elia ai razionalismi Bauhaus o, peggio, all’asettico rigore sovietico. C’era nell’architetto comasco un elemento “artistico” rielaborato con originalità, un fattore estetico ereditato dalla secessione viennese: la volontà di riuscire a rendere elegante la modernità.