Artefatti. Il Piacere di D’Annunzio che rimbomba nel film della grande decadenza

gabriele_d_annunzio_3Scritto nel 1889, un anno prima dell’uscita de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (“Inglesi: gente che andava nuda a caccia di marmotte quando noi già si accoltellava un Giulio Cesare”, cit.) e ben 42 rispetto a Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle (“tra i francesi che s’incazzano e i giornali che svolazzano”, cit.), giusto per fare accostamenti postumi di genere decadentista, Il Piacere di Gabriele D’Annunzio non può vantare – a differenza dei due romanzi menzionati – una trasposizione cinematografica apprezzabile. Amnesia grave da parte della settima arte, giacché quel libro, oltre agli elementi scenografici particolarmente ricchi e alla trama seducente, rappresenta il best sellers dannunziano per antonomasia. La grande decadenza, potrebbe ancora essere un efficace prequel, riguardo alle più recente narrazioni romane. D’altronde, chi non ha letto Il piacere? Forsanche per indispettire il docente, che alle scuole medie lasciava scemare il programma scolastico sempre coi soliti Pascoli, Carducci, Manzoni, Verga e vattelapesca. Nominato frettolosamente, palesemente relegato nei vuoti estetismi d’appendice – con l’immancabile connessione superomista nietzschiana a far da spauracchio – poco prima dell’ultimo trillo della campanella annunciante le vacanze estive, D’Annunzio restava, come coitus interruptus, in sospeso. Null’altro che un intrigante affare per l’avventurosa autodidattica vacanziera.

Il Piacere come un film privato ed immaginifico, quindi, con l’immedesimazione sognante del lettore tesa ad assecondare i tormenti dell’esteta Andrea Sperelli, assoluto protagonista (come Mr. Grey e Monsieur Alain, d’altronde) della scena. Il velluto rosso si apre e c’è da subito una Roma che pare ricamata finemente in arazzo, così umbertina, litografica, crepuscolare, sfiorata appena dalla modernità. D’Annunzio, per accomodare tecnicamente cronologia e frequenti flash back, depone dei cippi, delle pietre miliari sulle quali incide citazioni latine, greche, inglesi, tedesche, francesi. Arte, in tutte le declinazioni, traboccante fino all’esasperazione ossessiva, fino alla nausea decorativa. L’opulenza della prosa, infiorata da svariati riferimenti classici, estetici, religiosi, mistici, s’accoccola in tormentata epifania: il dandysmo raffinato del nobile Sperelli, così simile a quello del D’Annunzio dell’epoca tanto da svelare elementi autobiografici, resta impigliato nelle maglie di una doppia tentazione amorosa – quella tra l’ardente Elena e l’eterea Maria – afflato sostanzialmente inconcludente. Questo è un sublime artefatto, visto che la superficialità anaffettiva ed egoista del protagonista, nasconde dietro la lascivia delle pose lussuriose, null’altro che la vendita dell’anima alle allucinogene muse dell’arte. Le due donne finiscono così per rappresentare polarità schematiche, a tratti pleonastiche, funzionali all’oscillante soliloquio del protagonista.

Un mondo sta per finire e Roma è il teatro perfetto per questo almanacco di malinconie. L’aristocrazia barzotta, con ville argenterie calesse giardini duelli cappelli con le piume e cavalli a dondolo, s’accommiata per sempre, nel pusillanime torpore della replica svogliata. “Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell’oscurare la verità”, sospirava il padre di Andrea Sperelli nelle prime pagine. Ciò che segue, nel romanzo, è la messa in posa di tale meccanismo: una ricerca spasmodica d’appagamento, fino all’annichilimento per eccesso. D’Annunzio è lì, giovane ed ambizioso, ma già pronto a scattare altrove per amore di avventura, per fecondare arditamente il nuovo secolo. Eppure, considerando tutte le strabilianti mutazioni del genio, soppesando tutte le maschere di una celebrità ante litteram – l’aeroplano, la macchina, le réclame, il volo su Vienna, l’impresa di Fiume – resterà sempre questo vincolo formalista, il gusto simbolista Fin de siècle che spetterà ai futuristi abbattere senza remore. Il Vate ne restò imbrigliato probabilmente per autocompiacimento, fino all’apoteosi di cesello, la performance domestica dell’esilio in patria. I Romanzi della rosa, si cristallizzarono così nel gingillante edonismo del Vittoriale, enclave d’accumulo e sperpero, di generosità e clausura, di giovinezza e senilità.

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Donato Novellini

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