Ecco, con molta pacatezza e tergiversando bellamente sul bon ton, questa è, con tutta probabilità, la più accurata selezione di scurrilità tratta dal lungometraggio South Park: Bigger, Longer & Uncut. Il film del 2000 ideato dalla premiata ditta Trey Parker & Matt Stone, in fin dei conti invecchiato male, non è un granché: inficiato dai soliti siparietti musical, tipica zavorrata delle produzioni “leggere” anglosassoni, e da un canovaccio che fa parodia dei film sull’olocausto (sostituendo gli ebrei con i canadesi), regge a stento la lunga durata. Certamente preferibili risultano gli episodi originali della serie animata a questo collegata. S’intendano quelli incensurati, raramente visti in Italia, nonostante un doppiaggio comunque sempre degno d’encomio.
Generando un’allucinata iperbole, ibrido fumettistico dell’Arte di Insultare di Arthur Schopenhauer messa al trivio e Bagatelle pour un massacre di Louis Ferdinand Céline, South Park ha rappresentato per gli anni a cavallo dei due secoli la voce più irriverente e spiazzante della cultura pop americana; certamente più esplicita de I Simpson, la serie si distingue per alcune caratteristiche divenute iconiche: il tratto grezzo e schematico, il disegno minimale volutamente sciatto, le pause meccaniche, l’atmosfera naïf. Stan, Kyle, Cartman e Kenny – i ragazzini protagonisti – sono maschere sardoniche, posate con grande intelligenza dagli autori su altrettante tipologie d’individui: il giudizioso bravo ragazzo, il razionalista intelligente ebreo, il ciccione scurrile e razzista, il povero e criptico, quasi dickensiano nel subire la morte ad ogni puntata. Attorno a loro, portata all’esasperazione, c’è l’ipocrita società nordamericana.
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Va detto che in South Park, così come da precetto satirico, nessuno viene risparmiato. Facile canzonare la piccola borghesia, i soliti politici, o giocare a tiro al bersaglio sulla Chiesa Cattolica o Protestante (come accade ne I Simpson) – comunque sovente trattate spietatamente, oltrepassando il limite della blasfemia – meno semplice scartavetrare la pellicola protettiva di minoranze suscettibili, soggetti sensibili, lobby dei nuovi diritti. Cattiva coscienza portata all’ennesima potenza, “questo In tv non si può dire, sono battute sessiste”, tant’è che l’indicibile viene comunque affermato esplicitamente, tanto da meritare censure, in seguito alle proteste delle varie categorie indignate. Il paradosso è che queste lamentazioni paiono propaggini di sceneggiatura, in quanto già tratteggiate dagli autori nei tabù da infrangere.
Poi un profluvio di volgarità, il sacchetto per il vomito, la buca dello sterco invisibile nell’impomatata retorica mediatica globale, ma che da qualche parte deve pur trovare alloggio. Giocando abilmente con soluzioni surreali e dadaiste – l’asciughino parlante drogato, le guest star improbabili come Robert Smith dei Cure, Winona Ryder o George Clooney, la relazione amorosa tra Saddam Hussein e Satana – la serie animata finisce per rendere liberatorio l’atto osceno, generando intimo compiacimento per aver smosso in qualche modo il rigido protocollo del politicamente corretto. A tutti gli effetti si tratta di pornografia animata, sia dal punto vista realizzativo (movimenti meccanici, ripetuti schematicamente), sia da quello contenutistico. Quando Carmelo Bene ebbe ad affermare “il porno è il manque, è quanto non è, è quanto ha superato sé stesso, è quanto non ha voglia”, intendeva qualcosa di simile alla reiterazione atarassica ed annullante del desiderio.