Artefatti. Spengler e la passeggiata eretica nei non-luoghi del tramonto dell’Occidente

osp“Noi non abbiamo la libertà di raggiungere questo o quello, ma la libertà di fare ciò che è necessario, o nulla. E il compito che la necessità della storia ha posto, verrà assolto con il singolo o contro di lui”. In questa drastica frase dello studioso tedesco Oswald Spengler c’è molto dell’eresia intellettuale primonovecentesca, certo ereditata dalla destabilizzazione filosofica nicciana, così come dal tracollo post-bellico dell’ordine prussiano, ma pure la conseguente rielaborazione di nuove istanze, inglobando con lungimiranza il fermento vivificante socialista nella tradizione del pensiero europeo.

Affrontiamo perciò Il tramonto dell’Occidente, lineamenti di una morfologia della storia mondiale – mastodontico trattato filologico pubblicato in due volumi tra il 1918 ed il 1922 da un anonimo quanto geniale “dilettante” – con lo spirito di chi si avventura in lande sperdute, dentro e soprattutto fuori dalle riserve di caccia del mondo moderno, quest’ultimo già percepito dall’autore come mito in via d’estinzione. Oltre, nel bosco jungeriano, il meta-luogo dove opporre resistenza eroica al movimento disumanizzante, al livellamento uniformante implacabilmente guidato dagli ingranaggi della Storia, Il cacciatore è a sua volta braccato, il wandervogel si mimetizza o, come da esotica tradizione giapponese, pratica hagakure (nascondendosi tra le foglie). Qui però non si tratta di panteismo, idealizzazione romantica e oleografica della natura, baloccamento da sturm und drang; qui si tratta di affrontare la decadenza storica, dall’autore indicata nella dicotomia Kultur und Zivilisation, con la consapevolezza pessimistica del piccolo gesto vano. Che può mai fare il singolo individuo, dinnanzi agli effetti di mutamenti secolari che lo sovrastano? Nulla, nemmeno qualora associato ad altri volonterosi, giacché ogni aspetto dell’esistenza ubbidisce a leggi superiori. Si badi bene, non a quelle divine in senso cristiano, bensì ad altre, in qualche modo riconducibili alla palingenesi degli stoici.

Per l’autore del Tramonto, non solo esiste una Storia quale destino, ma esistono tante Storie quante Civiltà, tutte fatalmente soggiacenti ad un processo di ascesa, consolidamento, declino e scomparsa, esattamente come si trattasse di un organismo vivente. Nel libro viene posta attenzione ai segni del decadimento occidentale, ben evidenti nella colossale serie di equiparazioni proposta. Valga ad esempio la contrapposizione tra città e villaggio. Per Spengler il caos metropolitano, quel babelico brulicare di sottouomini alienati all’ombra di faustiani edifici ascendenti, è l’esatto contrario dell’ottimistica visione futurista. Si tratta dell’apogeo della Tecnica, qualcosa che oggi, un secolo dopo, possiamo definire Tecnocrazia con evidente accezione negativa.

In questo pessimismo c’è tutto lo spirito tedesco, un filo rosso in grado di collegare nemmeno troppo paradossalmente Schopenhauer agli Einsturzende Neubauten (“nuovi edifici che crollano”). Il villaggio, invece, mantiene l’armonia sincera del rapporto con la natura, quasi si collocasse fuori dall’implacabile meccanismo storico annichilente. Ciò era forse plausibile agli inizi del ‘900, quando la Tecnica ancora era vincolata al titanismo del supporto fisico (la macchina), mentre oggi la tecnologia impalpabile s’insinua in ogni dove, perfino nel più sperduto dei borghi. Preveggenza, nel volume ricorrente. Anche l’estetica è profondamente indagata nel libro, fornendo il presupposto per ribadire il concetto: se dell’arte contemporanea non ci resta che un onanismo sterile, astrusa affabulazione di un risibile egocentrismo, e di quella passata null’altro che il muffoso feticismo museale, è segno che si è incrinato irreparabilmente il rapporto tra l’uomo e la rappresentazione di istanze superiori. Come in tutti i periodi di decadenza, le discipline artistiche tendono al manierismo, ovvero alla riproposizione artificiosa di stilemi consolidati, con ciò confermando la totale assenza di una spontanea vocazione espressiva.

Il Tramonto dell’Occidente, si potrebbe collocare sullo scaffale accanto a Rivolta contro il mondo moderno di Julius Evola e a La crisi del mondo moderno di René Guénon, benché a differenza dei due, questo lasci in secondo piano l’aspetto esoterico e sapienziale, quasi ponendosi con un certo pragmatismo entro i confini dell’etnografico divulgabile. Spengler, per altro, non fu mai un accademico, anzi dovette subire l’umiliazione diffidente delle istituzioni (illuministe, razionaliste, positiviste, cattedratiche) e di un mondo che correva isterico in direzione opposta. Egli, associabile in qualche modo a Tolkien nella capacità di riordinare una struttura metafisica sul corpo degli eventi mondani, più o meno superflui nella loro prevedibile involuzione sclerotizzante, resta a tutt’oggi un irregolare.

Gli si dette del fantasioso, del pressapochista immaginifico, dell’apprendista stregone (la traduzione in italiano del Tramonto da parte di Evola confermò per certuni la collocazione del libro nelle bizzarrie tardo-romantiche, giacché le tesi non erano supportate da un approccio razionalista: come se l’approccio razionalista non fosse già stato collocato da Spengler all’interno dei prodromi del declino). Troppi riferimenti eterodossi in quel tomo, peraltro risistemati in organico schema senza l’ausilio di un rigido canone scientifico, troppo zeitgeist profuso in luogo di empiriche ovvietà, davvero intollerabile per i parrucconi del progresso. Potendo ipotizzare la risposta di Oswald Spengler, opteremmo per un classico: “Ducunt volentem fata, nolentem trahunt”.

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Donato Novellini

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