Il ricordo (di M.Veneziani). Giano Accame, coerenza e il filo rosso del fascismo spirituale

Giano Accame
Giano Accame

Un ricordo di Marcello Veneziani dedicato a Giano Accame, maestro di carattere di più generazioni di giornalisti liberi

Se Giano Accame non avesse seguito le sue idee ma la sua convenienza, oggi sarebbe ricordato dalla cultura e dal giornalismo italiano come uno dei più liberi e lucidi scrittori civili e intellettuali del nostro paese. E se Giano non fosse stato di destra e pure critico della destra e sgradito ad essa stessa, non avrebbe patito quel travaglio umano e professionale che ha avuto per diversi anni. Storico della repubblica italiana e del fascismo studioso della letteratura rivoluzionaria e conservatrice, giornalista economico e appassionato sognatore politico, da uomo di destra si era innamorato di Pacciardi e poi di Craxi. Avevo 25 anni quando conobbi Giano Accame ed ero curioso di incontrarlo. Di lui avevo una frammentaria e contraddittoria biografia, per fama e per scritti: lo sapevo giornalista economico e non riuscivo a capire come uno come lui potesse occuparsi di un campo così grigio e ostico come l’economia, anche se sulle pagine del Settimanale il suo modo vivace e polemico di far economia mi costringeva a leggere pagine che di solito scansavo. Lo sapevo pacciardiano, un po’ a sinistra e un po’ a destra, fascista fuori tempo massimo e pure estimatore di alcuni combattenti partigiani, occhieggiante al 68 e per questo epurato dal Borghese, che lo sostituì con Julius Evola, ma poi coinvolto in desideri di rinascita nazionale e di nuova repubblica presidenziale; poi lo scoprì innamorato di Craxi e del socialismo tricolore, che cercava interlocutori di sinistra ma culturalmente legato al filone nazionale. Il suo bifrontismo sembrava corrispondere al suo nome, ma c’era nella sua inquietudine un’intima coerenza e il filo rosso di un fascismo spirituale, nazionale e rivoluzionario, libertario e critico. Avevo amato un suo scritto sul romanticismo fascista e su Paul Serant, che poi ripubblicai come saggio introduttivo alla ristampa del testo.

Amavo la sua aria un po’ assente, la sua ribellione all’automobile (un giorno gettò la patente nel Tevere e da allora non ha guidato più), la sua ligure parsimonia di parole ed effusioni. A differenza di molti suoi coetanei che avevano scelto percorsi narrativi e che comunque si tenevano lontani dalla politica, Accame mi pareva ancora politicamente sveglio e cospirante, col desiderio di incidere sulla realtà e addirittura di cambiare le sorti del paese. E scontai anche qualche epurazione per la mia amicizia con lui, nel nome della nuova destra e del socialismo tricolore. Un editore mi disse apertamente che non mi perdonava la frequentazione del “pericoloso Giano Accame”. Quell’aggettivo mi rese Giano ancora più interessante e meritevole di attenzione, perché riscoprivo tracce nietzscheane in quella definizione.

Con Accame condividemmo non poche avventure editoriali, compresa la sua direzione del Secolo d’Italia; in tutte le mie iniziative editoriali e culturali lo ebbi a fianco, a cominciare da Intervento a Pagine libere, da l’Italia settimanale a La fondazione Italia, da Lo Stato a Il Borghese, con i suoi preziosi articoli di scenario economico e con le sue incursioni culturali, le sue polemiche civili, la sua curiosità di incontri sul confine e anche oltre, il suo desiderio di dialogare con le sinistre moderate ed estreme, radicali e socialiste. Con Beppe Niccolai e lui, costituimmo un’amicizia triangolare e ideale, nel nome di Berto Ricci. Ricordo una gita insieme in auto a Pisa, il nostro conducente era un collaboratore di Niccolai, l’ex-ministro Altero Matteoli; Niccolai ci fece vedere il carteggio inedito di Berto Ricci che aveva avuto dai suoi famigliari. Quando smisi di sperare nella sorte di giornali, editori, gruppi che potessero suscitare la politica alla cultura e alle passioni civili, e quando ripiegai su percorsi individuali, persi il filo di molti rapporti, e persi la consuetudine di incontrare Giano. Rimase un’amicizia a distanza, silenziosa; a distanza ho pure condiviso i suoi drammi più recenti e a distanza ho difeso alcune sue scelte ritenute imperdonabili nel mondo parruccone della destra. Ma lo riconobbi giovane quando lo incontrai per la prima volta; giovane perché pensava ancora di poter cambiare questa porca Italia e di poter ancora far vibrare una cultura civile attraverso l’incrocio pericoloso di culture l’un contro l’altra armate. Giovane, anche se aveva l’età mia di adesso. Giano non ebbe per noi ragazzi della nuova destra pensante il ruolo di seniore, nel rassicurarci nelle idee, come si addice ad un fratello maggiore o forse uno zio, che ha quasi trent’anni più di te; ma di inquietarci, di seminare tentazioni eretiche, di rimettere in discussione la geometria fissa delle appartenenze. Di questa sua irrequietezza gli sono grato. Giano è stato per me uno dei pochi contemporanei che è valso la pena conoscere e frequentare.

Ricordo una volta al matrimonio di Enzo Cipriano che mi raccontò, lui che non era certo un cattolico praticante, il disagio di aver partecipato ai funerali di Rosario Romeo: come è stato brutto, mi disse, quel funerale, senza religione e senza riti. Una tradizione, una liturgia, un Dio ci vuole nei momenti decisivi della vita e della morte, mi disse. Quel Dio lo accompagni nel suo ultimo viaggio.

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Marcello Veneziani

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