Storia/2. Francesco Giuseppe, la finis Austriae e la finis Europae

Francesco Giuseppe
Francesco Giuseppe

Nel centenario della morte dell’ Imperatore d’Austria e Ungheria (21 novembre 1916)
Francesco Giuseppe e il tempo della fine: la seconda parte del saggio dell’ambasciatore Gianni Marocco

Fu Francesco Giuseppe un capo famiglia dispotico, misoneista, retrogrado, vendicativo, spesso assai poco gentiluomo? Sì, secondo l’Arciduca Leopoldo Ferdinando di Absburgo-Toscana, divenuto poi Leopold Wölfling, che scriveva col dente ancora avvelenato per le vicissitudini personali, e che pubblicò nel 1930 in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti: My Life Story. From Archduke to Grocer. Certo Francesco Giuseppe ebbe salute di ferro, quella che mancava al suo avo Carlo V. Ma non ne aveva la saggezza politica. Pare che la capricciosa moglie, Sissi, un giorno abbia detto: “Che cosa pretendete da Francesco Giuseppe? E’ solo un furiere!”. Il pensiero politico dell’Imperatore rimaneva ancorato al ‘Sistema’ del prìncipe Klemens von Metternich (aiutato da Talleyrand), trionfante al Congresso di Vienna nel 1815, dopo la caduta di Napoleone, che stabilí la “dottrina del legittimismo”, la restaurazione e difesa del diritto delle monarchie assolute tradizionali, essendo esse di origine divina.
Grande cantore della finis Austriae, della dissoluzione dell’Impero austro-ungarico che aveva riunito popoli di origini disparate, con lingue, religioni, tradizioni diverse, fu Joseph Roth, israelita nato a Brody nel 1894, alla periferia dell’Impero, nella parte orientale della Polonia, morto a Parigi nel 1939, forse convertitosi al cattolicesimo poco prima della morte. Al centro delle opere di Roth si trova il tramonto dell’Austria come metafora per la perdita della patria. A tal gruppo appartengono i suoi grandi romanzi La marcia di Radetzky del 1932 e La cripta dei Cappuccini del 1938, così come il racconto Il busto dell’Imperatore del 1934.
Negli ultimi anni di vita, Roth fu in contatto con circoli monarchici attorno al pretendente al trono Otto d’Absburgo e per suo incarico, il 24 febbraio 1938 (pochi giorni prima dell’Anschluss) andò, vanamente, a Vienna per persuadere il cancelliere austriaco Kurt Schuschnigg a dimettersi in favore del pretendente Otto d’Absburgo. È lecito dubitare delle possibilità di successo, non della loro buona fede.
Un passo de La cripta dei Cappuccini dà la chiave di lettura di ciò che fu lo scomparso Impero: “Nella nostra Monarchia non c’è nulla di strano, in fondo… Tuttavia devo dire che in questa Europa insensata degli Stati Nazione e dei nazionalismi le cose più naturali sembrano stravaganti. Por esempio il fatto che slovacchi, polacchi, ruteni della Galizia, gli ebrei col caffetano di Borislav, i trafficanti della Bácska, i musulmani di Sarajevo, i venditori di caldarroste di Mostar si mettano a cantare all’unisono il Gott erhalte Franz den Kaiser (l’inno dell’Impero composto da Joseph Haydn) il 18 agosto, giorno del compleanno di Francesco Giuseppe. In questo, per noi, non vi è nulla di strano”.
Contro questa immagine edulcorata, il cliché del buon governo, della tolleranza ed armonia di fondo, ha scritto tra gli altri Amedeo Tosti, un cultore di studi di storia militare, in Nemesi carducciana: i Napoleonidi e gli Asburgo nell’opera di Giosuè Carducci, pubblicato a Roma nel 1911, sia pure ampollosamente: “Regno lungo e disforme, vario e difficile, agitato e insoluto, sperimentale e caotico, regno di resistenza e di stanchezza, di coazione e di astuzia, d’evolvimento e d’illusionismo, di transizione e di transazione: regno colmo di eventi, largo di contrasti, saturo di problemi, pervaso d’ironie; regno, che vide il vespero vermiglio dell’aristocrazia ed il troppo roseo albore del socialismo; regno delle rivolte e delle rinunzie, dei martiri e dei riscatti, delle agonie e delle risurrezioni, che confermò le parabole degli apostoli e le apocalissi dei veggenti; regno dischiuso alla contraddizione logica e alla gestante utopia, nel cui corso apparvero i più strani prodigi della storia, e nel cui seno fiorirono i più stupendi paradossi del sogno, sì che le «espressioni geografiche» si mutarono in patrie viventi e coscienti”.
Franco Cardini, storico insigne, ha pubblicato da Sellerio, nel 2007 un bel libro, Francesco Giuseppe, in uno stile divulgativo eppur profondo, non banale. Cardini descrive magistralmente i tratti principali del carattere dell’Imperatore, per nulla amante della guerra, portato ad una vita militare vissuta come pubblico impiego, tiepido nei confronti della Kultur tedesca e seguace di un cattolicesimo rigido, ma non bigotto e ostentato, e gli eventi principali della sua vita, dall’infelice rapporto con la moglie a quello con l’autoritaria madre, così come i molti lutti che lo colpirono: la cugina Matilde, arsa viva per una sigaretta nel 1867; il fratello Massimiliano, fucilato nello stesso anno da Juárez a Queretaro, in Messico, dopo che Napoleone III lo aveva convinto ad accettare quella Corona Imperiale, salvo poi lasciarlo senza soccorsi; il figlio ed erede Rodolfo, suicida (con qualche dubbio) nel 1889 a Mayerling; la moglie Elisabetta, uccisa dall’anarchico italiano Lucheni a Ginevra, nel 1898; il nipote Francesco Ferdinando, assassinato con la moglie a Sarajevo nel 1914.

La Germania e la balcanizzazione dell’Austria

Nell’analisi storiografica del lungo periodo storico vissuto da Francesco Giuseppe, asceso al trono a 18 anni durante la Rivoluzione europea del 1848, emergono, secondo Cardini, le difficoltà che questo comportò, a partire dalla volontà espansionistica ed egemonica prussiana di Bismarck, che mirava a scalzare il primato dell’Austria e spingerla ad una sorta di balcanizzazione. Per Cardini, Francesco Giuseppe fu il perfetto allievo del Metternich, tradizionale alfiere della reazione, ma ancora prima fautore di un dualismo austro-francese. Metternich aveva una bestia nera, il nazionalismo ed il patriottismo, forze centrifughe che avrebbero fatto esplodere l’Europa, impedendo alle nazioni di vivere insieme sotto un’unica autorità ideale e, alla lunga, uccidendo anche la pace.
Perciò, contrario all’idea di “libertà nazionale”, l’Imperatore era però convinto che bisognasse dare qualche riconoscimento alle nazioni per impedire l’affermazione delle istanze estremiste: “L’Impero d’Austria era un mondo in cui l’autoritarismo si era progressivamente aperto ai valori costituzionali, dove le opposizioni venivano profondamente rispettate, era un mondo insomma in cui le libertà democratiche si stavano lentamente, ma progressivamente affacciando. In questo mondo conservatore ed autoritario, però nello steso tempo rispettoso di sudditi che sono anche cittadini, Francesco Giuseppe gioca uno stranissimo ruolo: diffida delle novità e però si trova a essere un continuo innovatore. Proprio l’apertura alle istanze nazionali, come quella ungherese, per la quale si spesero molto in prima persona la moglie Elisabetta ed il figlio Rodolfo, riconosciuta ufficialmente con la diarchia austroungarica, portò però al sorgere di tensioni da parte degli slavi e del panslavismo, il cui grande patrono era l’imperatore slavo per eccellenza, lo zar, e quindi con la Russia, ormai protesa sui Balcani”.
Emil Cioran scrisse che “in Europa la felicità terminò a Vienna”. A cavallo dei due secoli, Vienna la sintesi del suo Impero, cosmo complesso che, seppure parte del mondo germanico – l’austriaco Robert Musil peraltro non riconosceva altra ‘comunità nazionale’ al di fuori della ‘comunità linguistica’ – era caratterizzato da una sfumata giovialità, dall’ironia, da una diffusa indolenza, di fronte alla rigida concezione del mondo prussiana. Ingredienti del differente tono della tradizione filosofica austriaca rispetto all’idealismo tedesco. La struttura politica che sosteneva quel mondo in precario equilibrio era la Kaiserliche und königliche Monarchie Österreich-Ungarn, la Monarchia Imperiale e Reale: un vecchio Impero, sopravvissuto grazie al compromesso – l’Ausgleich del febbraio1867 – dopo la sconfitta di Königgrätz / Sadowa contro la Prussia, che concluse le aspirazioni egemoniche degli Absburgo sul mondo di lingua tedesca e orientò la politica di Vienna verso Oriente. Il trattato divise l’Impero in due parti: una, germanica, sotto il diretto controllo di Vienna, e l’altra sotto il dominio magiaro, o meglio della nobiltà magiara, ad ulteriore scapito della componente slava.
Fu l’inizio di un’era tendenzialmente liberale, instaurata dalla Costituzione del dicembre 1867, che garantì la libertà di coscienza e di espressione, che rese possibile, altresì, l’incorporazione alla élite degli ebrei, che in solo tre generazioni, dall’essere in maggioranza poveri o piccoli commercianti e usurai, costituirono la quasi totalità di una nuova aristocrazia, intellettuale ed economica. È il caso paradigmatico dei Wittgenstein, una poderosa famiglia di industriali, alla quale apparteneva il filosofo Ludwig. Come lo è la dedica che François Fejtö, giornalista e politologo ungherese naturalizzato francese, ebreo, mise all’inizio del suo libro Requiem per un Impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-ungarico, pubblicato nel 1988: ‘Alla memoria di mio padre, liberale, fra-massone e suddito leale della Monarchia austro-ungarica’.
Paradossale Vienna. La città di Mahler, Schönberg, Webern, che il giorno di Capodanno diffonde al mondo le note della musica ottimista ed allegra degli Strauss, composta e presentata sovente in momenti che già lasciavano prefigurare la decadenza e la crisi della società che l’aveva generata. Il valzer per definizione, “Il bel Danubio blu”, fu composto poche settimane dopo il disastro di Sadowa, e la prima dell’operetta di Johann Strauss, “Il pipistrello”, ebbe luogo pochi mesi dopo il crollo della borsa valori del 9 maggio 1873, il “venerdì nero” dei borghesi di Vienna. Scrisse Hermann Broch, romanziere, drammaturgo e filosofo ebreo, che Vienna fu allora una città al bordo di “un’allegra apocalisse”.

Le forze progressiste distrussero le fondamenta dell’Impero Austro-ungarico

Certo, lì esistevano pure, come altrove, grandi ingiustizie sociali, non solo grandi borghesi speculatori. Per Cardini “è indubbio che proprio le forze ‘democratiche’, ‘progressiste’, mirarono a distruggere sin dalle fondamenta l’Impero Austro-Ungarico. In Italia, questa distruzione è lo sforzo secolare delle minoranze prima ‘rivoluzionarie’ e poi borghesi sin dal 1815, dal Congresso di Vienna. L’interventismo italiano non fu delle ‘destre’ ma, innanzitutto, delle ‘sinistre’. Tutta la massoneria europea, a cominciare da Georges Clemenceau – capo del governo francese, venerabile delle Logge e fanatico anticlericale – non voleva solo vincere l’Impero degli Absburgo, ma cancellarlo dalla carta geografica, ridurlo a un mero ricordo storico. Perché quest’odio contro una costruzione statale dalla composizione multietnica, davvero ‘inter-europea’, dall’impeccabile amministrazione (ancora spesso rimpianta dagli ex-sudditi), dalla giustizia rigorosa e che aveva mostrato, tra l’altro, uno straordinario vigore culturale, un eccezionale patrimonio intellettuale? Al quale diede un ricchissimo contributo l’ebraismo. Basterebbero, a provarlo, i nomi di israeliti come Sigmund Freud, Franz Kafka, Joseph Roth, i quali (alla pari della quasi totalità dei loro correligionari nei territori austro-ungarici) si schierarono decisamente per la causa dell’Impero, facendo quanto era in loro potere per salvarlo (e poi per rimpiangerlo, come Stefan Zweig, aggiunge il sottoscritto). E’ ebreo anche Karl Popper, che alcuni considerano il maggiore filosofo del Novecento e che, tra gli ultimi a conoscere l’Austria ‘imperiale’, scrive: “Vienna era davvero una città incredibile, caratterizzata da una creatività ineguagliabile. Era una mistura feconda di quasi tutte le culture europee: il regime favoriva la libera espressione e l’incontro di queste diverse tradizioni. Inoltre, diversamente da altri luoghi dove culture disparate convivono – poniamo la New York di oggi – nell’Austria degli Asburgo non c’era violenza”. Nei sei decenni di regno di Francesco Giuseppe I, dal 1848 al 1916, Vienna si affermerà quale capitale culturale del mondo. Lì si formeranno i maggiori filosofi, scienziati e artisti del tempo: da Johannes Brahms a Carl Menger, da Heimito von Doderer a Gustav Klimt, da Edmund Husserl a Oskar Kokoschka, da Sigmund Freud a Karl R. Popper, da Ludwig Wittgenstein ad Hans Kelsen, da Adolf Loos a Gustav Mahler; a Franz Kafka a Praga”.
Cardini è tornato ad affrontare recentemente il tema, in questo stesso sito, in occasione del centenario dell’inizio della prima guerra mondiale, “una sciagura per il mondo in generale, per l’Europa in particolare”. Secondo lo storico medievalista: “Una volta purtroppo scoppiata, il giusto posto dell’Italia sarebbe stato l’allinearsi a fianco degli Imperi Centrali, nel fedele rispetto del patto della Triplice Alleanza. L’adesione dell’Italia a quella che con lei sarebbe divenuta la ‘Triplice’ si fondava sul risentimento nei confronti della Francia e su una massiccia dose di Realpolitik, ma era inficiata dall’ambiguità del perdurante reciproco rapporto di antipatia e di sfiducia tra Roma e Vienna. Tutto dipendeva ed avrebbe dovuto continuare a dipendere dall’abilità e dalla discrezione della Cancelleria di Berlino, autentico ago della bilancia e fulcro dell’ Alleanza… L’energica e potente Germania del Kaiser andava riscotendo sempre più consensi in Italia, dove nel 1910 Enrico Corradini fondava l’Associazione Nazionalista Italiana, alla quale aderì quasi subito lo stesso Gabriele d’Annunzio. Si trattava, per Corradini e per i suoi, di uscire dai limiti dell’Italietta imbelle che aveva perduto al guerra di Etiopia, digerito lo ‘schiaffo di Tunisi’ e mantenuto i suoi connotati di Paese agricolo ed arretrato. I nazionalisti puntavano all’appoggio dell’imprenditoria e soprattutto dell’industria pesante e a un rinnovamento morale collettivo, fondato sulla nicciana ‘Volontà di Potenza’. Con tale spirito si affrontò l’avventura di Tripolitania e Cirenaica del 1911, che in parte era un’orgogliosa e puntigliosa
replica alla politica estera austriaca che nel 1908 si era incamerata Bosnia ed Erzegovina… Dopo il rinnovarsi della crisi balcanica che condusse all’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando ed alla guerra, l’Italia mantenne in un primo tempo una riservata, prudente politica di attesa che la lettera del trattato della Triplice gli consentiva. In tale lasso di tempo la spregiudicata propaganda bellicista sostenuta dal ‘Corriere della Sera’ e dal suo direttore Albertini (decorosamente contrastata dalla neutralista e giolittiana ‘Stampa’ torinese, diretta dal Frassati), l’equivoco interventismo dei socialisti moderati bissolatiani, il cinico appoggio di Mussolini e del suo ‘Popolo d’Italia’ alla ‘quarta guerra d’indipendenza’ che si sarebbe, a suo avviso, fatalmente trasformata in guerra rivoluzionaria proletaria, la lirica infiammata e strapagata di Gabriele d’Annunzio ebbero la meglio sul neutralismo giolittiano, socialista e cattolico, sul Papa e sull’ingenuo pacifismo delle masse, cui si promise alla fine del conflitto il premio dell’agognata riforma agraria. Sappiamo che l’immane carneficina e l’illusione gattopardesca del voler tutto cambiare affinché tutto restasse come prima condussero alla vittoria ed al duro risveglio dalle illusioni che le tenne dietro. Eppure, se l’Italia fosse restata fedele alla Triplice Alleanza avrebbe forse potuto conseguire più facilmente, e con molto risparmio di capitali e di vite umane, ben più del ‘parecchio’ giolittiano che si limitava a quello che l’Austria aveva obtorto collo promesso e che consisteva nel Trentino, in Gorizia, in Gradisca e nella trasformazione di Trieste in ‘Città Libera’… Ed allora, chissà. Magari ci sarebbe stata davvero, quella ‘pace senza vittoria’ (di nessuno dei contendenti) che all’inizio del ’17 erano in tanti ad auspicare e perfino disposti a determinare: in tal modo magari gli Stati Uniti d’America avrebbero preferito la via della mediazione a quella delle armi e la loro egemonia mondiale sarebbe stata ritardata ed attutita”.

Ha incarnato la finis Austriae e la finis Europae

Sappiamo come è andata a finire con il successore di Francesco Giuseppe, il giovane e debole Carlo I, neppure veramente appoggiato dalla nobiltà dell’Impero. La sconfitta della Germania, la disgregazione dell’Austria-Ungheria, la rivoluzione d’ottobre, l’iniqua Versailles, premessa di un ancor più terribile conflitto mondiale. Certo, più di ogni altro, Francesco Giuseppe ha incarnato la finis Austriae e la finis Europae, il fasto e la disperazione di un’epoca e di un continente votato alla morte. Fu un perdente della storia e il suo decesso coincise praticamente con quello dell’Impero, anche se il suo mito è sopravvissuto e resiste persino oggi. Un mito più che una realtà.
(2-Fine)

Prima parte del saggio su Francesco Giuseppe qui

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Gianni Marocco

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