Artefatti. Salire sul caterpillar di Max Stirner, oltre il martello di Nietzsche

max-stirnerSi fa presto a giochicchiare con l’anarchia, talvolta sfruttando il termine come passepartout, per veicolare subdolamente idee o posizioni d’altra natura. L’anarchismo politico, è risaputo, conserva qualcosa d’ingenuo e marginale, a maggior ragione se messo in rapporto con il cinismo dei meccanismi di potere: grandi proclami mutuati da nobile tradizione eversiva, pari ad un granello di polvere sulla bilancia del consenso (fatto che meriterebbe apprezzamento), oppure poltrona da eretico in privato salotto, per fare del solipsismo ad ufo; prevede infatti virtù rare nella natura umana, quali autoconsapevolezza, senso di responsabilità, dignità, al fine di poter consentire l’armonica sussistenza di una società, come da intenti, priva di governante. Un’utopia, insomma, vieppiù declamata da spiriti sensibili e da artisti, quale gigionesca chimera di libertà ed eguaglianza per tutti (gli altri). Al solito, facendo leva sulle ridondanti tentazioni sovversive, nel frattempo oggi dissoltesi in vuote pose giovaniliste per pecore digitali, l’elemento fondamentale – l’individuo – passa sotto l’uscio, in favore del meccanico perpetuarsi di posticipi collettivistici, sovente idealizzati. Anarchia e comunismo (all’occorrenza riesumare il termine “stalinismo” per appianare dissapori nei confronti della controparte, enucleandone la degenerazione autoritaria) non sono sinonimi difatti, ma cugini per fraintendimento, quest’ultimo accettato da ambo le parti per non dover invitare a merenda Calimero (l’altro reietto parente hegeliano: il fascismo). Attualmente, nel gregge virtuale dove tutto si confonde, si relativizza il pulviscolo d’ego proprio mentre questo si crede libero di affermare ciò che gli pare, anzi peggio: vincolando l’intemerata al gradimento algoritmico dei più. In effetti Facebook rassomiglia ad un parco giochi dell’anarchia, se solo non fosse l’esatto contrario, ovvero un lager astratto per futuri reali psicolabili. Scrivente compreso, s’intende.

Ebbene, ipotizzando la disposizione dei banchi, nelle scuole elementari dell’anarchia, avremmo in prima fila i soliti noti: Bakunin, Proudhon, Rousseau, Babeuf, More, Thoreau; mentre in fondo all’aula, o forse dietro la lavagna – ma è più probabile nei bagni a fumare – Max Stirner. Personaggio misterioso e pecora nera della sinistra, filosofo individualista ben prima che Nietzsche merlettasse il nichilismo con la volontà di potenza, Stirner rappresenta la cattiva coscienza dell’anarchismo, per certi versi accostabile a Julius Evola sul versante opposto. Sovviene giustappunto un dubbio: versante opposto? Ecco, qui la faccenda inizia a complicarsi, giacché per entrambi la collocazione consona si dovrebbe porre fuori dalle parti, tuttavia con maggiore coerenza da parte del pensatore tedesco, rispetto ai cedimenti politici del barone romano (in vita senza tessere di partito, ma pur sempre autodefinitosi conservatore). L’unico monolitico “ismo”, offerto ai posteri da Stirner, farà correre un brivido sulla schiena dei benpensanti: Egoismo. Così, grazie a questo termine che recide ogni appartenenza, il poetico gioco di specchi anarchico – quello amorevolmente stuccato nell’ultimo secolo in girotondo per eunuchi – si frantuma in mille pezzi dinnanzi all’acciaioso usbergo dell’Io. Difatti il programma “politico” contenuto ne L’unico e la sua proprietà, l’opus magnum stirneriano uscito nel 1844 e liberato dalla censura perché giudicato assurdo ed incomprensibile, si risolve ad un palmo di naso dall’individuo; tutto ciò che oltrepassa tale confine è potenzialmente nemico, ostile, nocivo, frutto di altri egoismi nulla aventi a che fare con quello del singolo. Stirner non intende cambiare in meglio lo Stato, ad esempio, nemmeno ambisce ad abbatterlo per velleità rivoluzionarie, semplicemente ne nega l’esistenza. Con preveggenza scrive: “Quando il lavoro sarà libero, lo Stato sarà finito”.

Nosce te ipsum, torna comodo in questo caso anche solo per riportare la questione al punto di partenza. Senza una profonda conoscenza interiore, com’è possibile scoprire e quindi imporre una propria volontà? Il pensiero di Max Stirner, difatti, è talmente materialista da tracimare talvolta nel suo contrario, in una sorta di metafisica del Sé, non distante da quella definita da Ernst Jünger ne Il trattato del ribelle. In effetti, dietro ai martellanti assalti a Stato, Chiesa, partiti politici e sindacati, non c’è solo il gusto per l’oltraggio al potere costituito, bensì, più sottilmente, la negazione radicale di ogni forma d’idealismo associativo. Un pensiero talmente semplice – quello riconducibile al tangibile ottenimento del proprio soddisfacimento – da lasciare interdetta ogni ipotesi di confutazione. Ripetitivo ed insistente, Stirner procede piatto come un carrarmato, abbattendo ogni possibile ostacolo: “Io rifiuto un potere conferitomi sotto la speciosa forma di diritti dell’uomo. Il mio potere è la mia proprietà, il mio potere mi dà la proprietà. Io stesso sono il mio potere… e per esso sono la mia proprietà”. A ben vedere, soppesando i confini dell’Unico, il quale si apre e si chiude con la sentenza “io ho riposto la mia causa nel nulla”, traspare un nichilismo radicale del quale approfittare come in un supermarket senza casse, laddove il mondo quale creazione altrui, foss’anche di Dio, cessa moralmente di esistere. Ordinamenti e legislazioni, convenzioni e consuetudini, tutte impalcature debilitanti, tutti ostacoli; relativizza infatti così, debordando forse inconsapevolmente nella mistica interiore: “Io dico: liberati quanto puoi e avrai fatto ciò che sta in tuo potere; infatti non è dato a tutti di superare ogni barriera, ossia, per parlare più chiaramente non per tutti è una barriera ciò che lo è per alcuni. Perciò non preoccuparti delle barriere degli altri: è sufficiente che tu abbatta le tue”. Se la filosofia di Nietzsche è fatta col martello, Stirner era già alla guida di un caterpillar.

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Donato Novellini

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