Artefatti. Seguire Cioran nel gusto di correre il rischio di svestire la vita

Cioran
Emil Cioran

Per nulla al mondo: Un amore di Cioran, questo è il titolo probabilmente più pericoloso che gravita attorno alla memoria dello scrittore originario di Rășinari (Romania), poi naturalizzato francese, ma per sua stessa definizione apolide. Uscito anche in Italia, il libro a firma Friedgard Thoma – insegnante tedesca di filosofia, che con Cioran ebbe un legame affettivo, in parte tenuto nascosto alla compagna ufficiale Simone Boué – racconta dell’infatuazione che il vecchio pessimista ebbe nei confronti della bella e giovane ammiratrice, a partire da 1981. Poco importa qui dei contenziosi legali seguenti, dato che sia l’editore francese Gallimard che gran parte dell’ufficialità accademica si opposero strenuamente all’operazione editoriale, giudicandola strumentale e di scarso valore filologico; poco incide pure il fatto che, divulgando la corrispondenza privata dei due, subentri il rischio di un effetto soap-opera, con relative imbarazzanti derive dolciastre. Con buona pace degli ortodossi seguaci e del perfido Aldo Busi come contraltare, ancora oggi Emil Cioran pare essere lo scrittore con meno probabilità di finire sotto le stelline argentate dei Baci Perugina: troppo cinico e disilluso per prestarsi al gioco delle ingenue predestinazioni amorose, troppo atarassico per essere utile in caso di aforisma mancante. Non giungerà da lui l’aiuto da casa, il fiele dell’insonne rumeno, guasterebbe infatti senza rimedio il marzapane sognante dell’innamorato, facendogli andar di traverso ogni poesia. Eppure, con un incipit tratto da Colette (o forse da Jane Austen? Il che sarebbe più grave: Pour rien au monde…) ed un esito proustiano (da Un amore di Swann, seconda sezione del primo volume della Recherche), il titolo tanto osteggiato già prefigura un doppio registro interessante, lontano dalla meschinità dei pettegolezzi.

Da un lato la testimonianza, pare vergata su un tovagliolo di un caffè parigino, dell’infatuazione romantica, così declinata: “per nulla al mondo avrebbe rinunciato all’uso lirico e vagabondo del suo tardo autunno”; dall’altro, a corroborare l’eccitazione senile verso il proibito, la gelatinosa trappola del tempo perduto, l’erotico trasporto poi disatteso prudentemente dalla giovane amante. Entrambe comunque apparentemente assai distanti dalle spietate sentenze filosofiche, elaborate da Cioran in testi quali Sommario di decomposizione, Al culmine della disperazione, L’inconveniente di essere nati, Sillogismi dell’amarezza. Si tratta a tutti gli effetti di una sbandata pericolosa? Forse addirittura di una fuga dal gestell autoimposto dalla tecnica intellettuale e letteraria – sempre a voler far coincidere calligraficamente vita ed opera – non dissimile da quella che portò Nietzsche alla follia, con l’irrazionale vitalismo dionisiaco (i Ditirambi, Lou Salomè, la musica di Bizet in contrapposizione a Wagner, l’infatuazione mediterranea di contro al rigore nordico-germanico), preludio tragico in entrambi i casi, visto che a Cioran toccarono in sorte, di lì a poco, gli effetti devastanti dell’Alzheimer. Ci provò anche Irvin D. Yalom, con il velleitario romanzo E Nietzsche pianse, a sbeffeggiare la filosofia Übermensch, con una interpretazione psicanalitica e debolista, altrove più compiutamente esposta da Gianni Vattimo. Qualcosa insomma riguardante la coerenza, intesa come se lo scrittore dovesse intingere nel proprio sangue la penna, ed il tradimento delle aspettative nei confronti dell’immedesimabile seguace. Anche solo per questo il lettore non dovrebbe mai conoscere personalmente l’autore che tanto ammira, e i carteggi riservati dovrebbero restare tali.

Qui la pubblica scoperta del punto debole, ovvero il cedimento dello scetticismo abissale in favore di una ossessione amorosa obnubilante – per altro specularmente tesa a rafforzare il gioco attrattivo esercitato dalla controparte femminile – rassomiglia ad un rituale di svestizione, a quello smascheramento “umano troppo umano”, contro il quale è da sempre chiamato a combattere lo stoico. Sostiene in una intervista l’autrice: “Cioran ha stilizzato per sé la figura dello scettico solitario, benché per decenni abbia vissuto in coppia e con molta socievolezza. A Parigi non era affatto un solitario, ma scriveva per i solitari. Egli ha amato la vita, benché scrivesse per coloro che della vita non erano in grado di superare le difficoltà. Per questi io compio di fatto un tradimento”.  Asserzione che ha il sapore della sfida al luogo comune, ma siamo proprio sicuri che l’esegesi epistolare sia in grado di canzonare (con la scusa feticista di aprire cassetti chiusi a chiave) il cupo Cioran, anche solo attraverso un depistaggio riservato ai suoi grigi epigoni? La risposta, ovviamente negativa, si basa sullo stereotipo mono-pessimista che aleggia attorno alla figura dell’autore. Solo una lettura frettolosa e superficiale potrebbe bignamizzare Cioran, “ben tetragono ai colpi di ventura”, parafrasando Dante, o farne un sonnambulo discepolo di Leopardi, eludendo di fatto l’indolenza slava che ne imbastardisce l’ordito apocalittico parigino.

Già ci aveva pensato lui, con un sarcasmo non privo di comicità, a sbeffeggiare sé stesso con acidi paradossi e pigre arrendevolezze all’insensatezza dell’esistenza, lasciando di fatto intravvedere il destino patetico del pensatore e l’esito superficiale degli inabissamenti. “A che scopo tenere ancora salotto per intrattenere l’universo?” si chiedeva ne La tentazione di esistere. Ribaltando la diceria che vorrebbe nell’intimo tristi i comici, potremmo supporre una sostanziale gaiezza interiore dello spacciatore di mestizie, soppesandone così l’indole sadica e la vocazione teatrale di affabulatore nullista. D’altronde fu Cioran stesso a definire “terapeutica” la pratica della scrittura; come se questa gli consentisse di scaricare sull’incauto lettore le paranoie più profonde, liberandosi al contempo del fardello nichilista attraverso un ribaltamento della morale e ribadendo così, più che un metodico filosofare, l’irresponsabilità dell’artista. La disperazione portata alle estreme conseguenze, sfocia in Cioran in un catartico svuotamento, in una dissoluzione strutturale, sempre però sorretta dall’impeccabile stile asciutto. Lucidità ed astuzia, come quelle di un risolutore di enigmi, si specchiano nel torpore opacizzante delle vacue sentenze: e se l’amore per la giovane insegnante tedesca non fosse stato altro che l’ennesimo stratagemma per eludere l’inesorabile? “Duriamo finché durano le nostre finzioni”, più che un epitaffio apatico pare un’arguta apertura di credito nei confronti della vita, dopo averla accuratamente disarmata, però.

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Donato Novellini

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