Cultura. C’erano una volta gli áscari ovvero i coraggiosi leoni d’Eritrea

Ascari con il tricolore
Ascari con il tricolore

Montevideo, 17 Luglio 2016
Appartengo a quella generazione d’italiani che la guerra non la fece o vide per ragioni anagrafiche, ma che crebbe con la sua presenza continua, reiterata, quasi quotidiana, immanente alla vita stessa.

La guerra aveva segnato profondamente l’esistenza delle famiglie italiane, ovunque, sia che lutti e tragedie fossero stati grandi, numerosi, particolarmente laceranti, sia che il conflitto fosse stato un incubo quotidiano durato cinque anni, tutti marchiati a fuoco da fame, paura, sofferenza, anche senza le ferite nella carne o la morte.

Con la guerra i ricordi dell’Africa, per i molti che c’erano stati, per mesi o per anni. Non pochi coetanei di mio padre, parenti o colleghi, amici di famiglia, stettero in armi, o parte in prigionia, per 10 anni o più, dall’inizio della Guerra d’Abissinia al difficile ritorno a casa, spesso segnati profondamente, nella psiche e nel físico, dai campi di prigionia d’America, d’Africa, d’Asia, d’Inghilterra o Germania.

Ognuno con i suoi ricordi tribolati, le sue disavventure, quel poco d’umanità che, nonostante tutto, era comunque sopravvissuto o faticosamente era riuscito a conservare, come un’esile fiammella. Io bambino ascoltavo, m’immedesimavo poi in quelle vicende che sembravano, nella voce dei protagonisti, realtà di pochi giorni prima, non di anni o decenni già trascorsi.

Fra i tanti racconti, sentiti ognuno più volte, mi piaceva in particolare quello di uno zio che aveva passato decenni in Eritrea, la nostra prima, amatissima Colonia; il mare, le spiagge, il porto di Massaua, la depressione desertica della Dancalia, l’altipiano sul Mar Rosso nel quale avevamo edificato la Capitale della nostra Africa, l’Asmara, con la sua vegetazione rigogliosa, i palazzi pubblici, le case, le infrastrutture, il nostro lavoro assiduo e creativo; le sue donne meravigliose, i fedeli áscari, le nostre truppe coloniali. Tribù guerriera che noi utilizzavamo, alla pari d’inglesi e francesi. Gli áscari erano i “Leoni d’ Eritrea”, magnifici guerrieri che non conoscevano la paura, la viltà, la fuga.

Oggi, lo sappiamo tutti, Internet è un universo illimitato di conoscenze che ci porta il mondo e la storia sullo schermo di casa. Per curiosità ho cercato “áscaro” in Google, ho aperto il sito di Wikipedia in italiano, poi ho trovato un blog (http://blog.libero.it/wrnzla/view.php?id=wrnzla&pag=3&gg), a suo modo non solo interesante, ma straordinario, per ricordare e celebrare “il coraggio, la fedeltà, l’onore” di quei soldati, un “Tributo al Valore degli Ascari Eritrei”, che furono migliaia, addirittura 182.000 nel 1940, e di cui oggi sopravvivono, probabilmente, poche decine di anziani di oltre novant’anni.

Reparto di ascari eritrei

Lì, oltre ad un copioso materiale fotografico ed iconografico, continuamente arricchito d’immagini, wrnzla (nom de plume di persona a me sconosciuta) racconta, attraverso articoli, memorie, estratti di saggi, filmati originali, la storia di quei “Leoni d’Eritrea”, che al nostro fianco, dal 1889 – fondazione dei primi 4 battaglioni eritrei, quando i Basci-Buzuk, “Teste Matte”, furono ribattezzati “áscari”, dall’arabo askar, soldato – al 1943, combatterono, soffrirono e spesso volontariamente decisero di morire, per una patria lontana, sconosciuta, che non era la loro.

Giuravano fedeltà a un Re che non avevano mai visto, perché la lealtà, la dedizione, l’attaccamento, il rispetto, sono nodi contorti, quasi indecifrabili. Forse erano soprattutto fedeli a uomini di quella patria, perché essi credevano in loro, onesti mercenari che ci ricordano i componenti delle “Legioni Straniere” di Francia e di Spagna, i “Fidanzati della Morte”, o quelle Guardie Svizzere, lucernesi, che a centinaia (oltre 600) furono massacrate dalla folla parigina inferocita, alle Tuileries, il 10 agosto 1792, per difendere il Re Luigi XVI, dopo che il medesimo aveva loro fatto arrivare un biglietto con l’ordine di cessare ogni resistenza:
“Avevano sommato al loro carattere, che è fondato su una misura incredibilmente esatta del diritto e del dovere, quanto dire sulla più rigorosa interpretazione della giustizia, l’orgoglio di portare l’uniforme. Un uomo senza uniforme, per l’ascaro è un essere trascurabile o, almeno, un tenente in borghese. L’uniforme gli ricorda continuamente il dovere di ammazzare il nemico, di non mollare la posizione. La guerra è ridotta ai termini più semplici per un ascaro: restare o sgabbare (fuggire). Chi resta è buon combattente, chi scappa è una femmina, tutto qui. Dopo l’Amba Aradam, febbraio1936, il massimo elogio che meritarono gli alpini fu quello degli ascari: «Albini stare fermi, nemico sgabbare». Tutto sommato è una sintesi assai felice del combattimento. A Mai Ceu, l’ultima grande battaglia della guerra d’Etiopia, il 31 marzo 1936, gli ascari di quel meraviglioso X battaglione, stettero fermi. E morirono tutti accanto alle mitragliatrici. 400 italiani morti e feriti, 873 ascari tra morti e feriti. Nei primi tempi della guerra etiópica, la propaganda di Addis Abeba tentava di far leva sullo spirito religioso degli ascari copti, cercando di diffondere la notizia che l’Italia avrebbe mandato avanti contro i ‘fratelli’ scioani soltanto truppa di colore. E per certo momento in piccola parte la propaganda ebbe qualche effetto. Nei battaglioni eritrei circolava qualche senso diffidente. I soldati neri volevano vedere come si battevano gli italiani”.

E sull’Amba Alagi, Tigrè, odierna Etiopia settentrionale, nell’aprile del 1941, durante la seconda battaglia su quel monte fortificato, a quota 3.000 metri, quando il Duca Amedeo d’Aosta, Viceré e Comandante, autorizzò la smobilitazione ed il loro ritorno a casa, per evitare la minaccia britannica di rappresaglia contro le loro famiglie, vista l’imminenza del totale esaurimento delle munizioni, quasi tutti gli ascari preferirono rimanere accanto ai loro ufficiali italiani, combattendo strenuamente fino alla inevitabile disfatta, allorché, senza più acqua, né viveri, gli italiani si dovettero arrendere ai britannici, con l’Onore delle Armi, il 17 maggio.

I ricordi degli italiani che sopravvissero alla disastrosa battaglia di Adua, nel 1896, contra los abissini del Negus Menelik II, circa i soldati coloniali, con il tarbush (un alto fez) rosso in feltro, con fiocco e fregio, sono netti, incisivi:

“Gli ufficiali dei battaglioni eritrei davano quotidianamente la prova di che valesse un bianco. La grande percentuale di ufficiali italiani caduti alla testa delle loro formazioni indigene conferma quella imperiosa necessità imposta da fattori psicologici di fondamentale importanza di mostrare prima di tutto alle truppe eritree il valore dei soldati che conquistavano il suolo abissino. Più che per l’ufficiale comandante il reparto bianco, per quello chiamato alla testa di ascari, il pericolo non ha da esistere, nemmeno come ipotesi. Nelle più intense e rabbiose piogge di pallottole egli ha da conservare il suo posto, a cavallo del muletto, eretto e indifferente, esposto per il primo alla morte, e per di più guardare negli occhi ad uno ad uno i suoi uomini, dominarli e condurli, indirizzarli e muoverli con un gesto del suo frustino. La vita dell’ufficiale non conta, conta il tenere la posizione, ricacciare il nemico, sbaragliarlo. Conta sapere custodire la vita degli ascari, risparmiando le perdite, indicando dall’alto della sua sella i nascondigli adatti, interpretando il terreno del combattimento per manovrarvi gli uomini come pedine, in un giuoco lucidissimo, che il soldato nero capisce e segue con una meticolosa obbedienza, poiché sa perfettamente che dalla sua obbedienza dipende anche la sua vita. Questo dono incondizionato che l’ascaro fa della sua esistenza nelle mani dell’ufficiale si traduce in quella espressione tipica, cento volte ripetuta dai gregari: ‘Tu stare mio padre e mia madre’. All’ufficiale l’ascaro confida le sue pene di cuore, i suoi progetti, il suo danaro risparmiato, le sue intenzioni, i suoi ricordi, le sue speranze. L’ufficiale diventa così una specie di sacerdote di quei combattenti, ha una legge alla quale l’ascaro obbedisce ciecamente. Ma guai se nel giudizio suo egli s’avvede di aver riposto la sua fiducia in un capo che commette ingiustizia. L’ascaro ha un modo speciale di disapprovare il suo ufficiale: fa l’abiet. Al momento del saluto alla bandiera presenta le armi. Al pied’arm non obbedisce. Rimane impalato il fucile proteso secondo il regolamento, immobile, muto. S’intende allora che v’è qualcosa che non va. È stata commessa una ingiustizia, è stata inflitta una punizione sbagliata. Siccome il senso della solidarietà è unanime così nella protesta come nell’approvazione, un abiet denuncia uno stato d’animo pericoloso. Quasi sempre l’ascaro non sbaglia quando protesta…”.

In battaglia gli áscari venivano all’inizio mandati avanti per primi “all’arma bianca” (avendo normalmente solo 8 pallottole). Ad Adua essi erano più di 4.000 e ne morirono un migliaio, mentre altri mille furono feriti ed 850 fatti prigionieri. Gli áscari di provenienza tigrina, la maggioranza, considerati traditori, vennero mutilati della mano destra e del piede sinistro. I monconi furono poi immersi nell’ olio bollente. Pare che a volere quella feroce punizione fu la “sanguinaria” imperatrice consorte Taitù.

Gli áscari erano saggi, non meno che eccellenti uomini d’armi. Si racconta di un genitore che istruisce il figlio, giacché “ascaro” si nasceva, per eredità di sangue; si diventava poi giorno per giorno, osservando tuo padre e gli altri uomini, giacché le famiglie restavano unite, seguivano i combattenti, abito comune a varie tribù guerriere africane:

”Dunque tu vuoi essere ascaro, o figlio, ed io ti dico che tutto, per l’ascaro, è lo zabet, l’ufficiale; lo zabet inglese sa il coraggio e la giustizia, non disturba le donne e ti tratta come un cavallo; lo zabet turco sa il coraggio, non sa la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un somaro; lo zabet egiziano non sa il coraggio e neppure la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un capretto da macello; lo zabet italiano sa il coraggio e la giustizia, qualche volta disturba le donne e ti tratta come un uomo…”.

Il 4 novembre 2014, giornata delle Forze Armate, alla presenza dell’Ambasciatore d’Italia, Stefano Pontesilli, è stato presentato presso la Casa degli Italiani di Asmara il libro che conclude la ricerca di Vito Zita “Il coraggio degli ascari”. Un’opera in due volumi nella quale sono presentati cronologicamente i nomi e le motivazioni delle Medaglie al Valor Militare attribuite ai soldati indigeni che militarono, combatterono, spesso morirono, sotto le insegne italiane fra il 1889 ed il 1943. L’Ambasciatore Pontesilli ha poi rintracciato sei áscari ancora autosufficienti ed ha personalmente loro offerto un capo di vestiario completo perché potessero partecipare all’ultimo ricevimento in Ambasciata, lo scorso 2 Giugno.

(Cfr. http://www.rivistaprogressus.it/presentazione-allasmara-eritrea-volume- vito-zita-coraggio-degli-ascari/;https://www.facebook.com/pages/Libro-Il- coraggio-degli-ascari/817307898288866).

*già ambasciatore d’Italia in America Latina

@barbadilloit

Gianni Marocco*

Gianni Marocco* su Barbadillo.it

Exit mobile version