Dossier. Manca un cadavere della strage di Bologna. La storia di Maria Fresu

box_strage_bolognaManca un cadavere della strage di Bologna. Soprattutto manca il coraggio di parlarne apertamente. Oggi è arrivato il momento di farlo perché a 36 anni dalla bomba alla stazione un libro ci regala una rivelazione clamorosa: delle 85 vittime ufficiali dell’esplosione del 2 agosto 1980, solo di 84 si è trovato il corpo, di una donna no. Il motivo? Dovrebbero spiegarcelo gli inquirenti che, come si sa, non hanno certo brillato per completezza investigativa indagando ossessivamente in una sola direzione. E dovranno spiegarcelo ben bene partendo da un presupposto banale: quando c’è un’esplosione, il cadavere si ritrova sempre. A volte vanno perse le dita, a volte le mani e i piedi, nei casi più estremi gli avambracci. Ma le parti “pesanti”, il tronco, le cosce e soprattutto il cranio, anche se orribilmente mutilati, si ritrovano sempre. Ce lo insegnano i volontari di Zaka, quelli che in Israele accorrono appena c’è notizia di una bomba palestinese se un autobus o in un bar, e cercano di raccogliere tutti i frammenti dei corpi, e addirittura il sangue versato, perché la tradizione vuole che un ebreo debba essere seppellito “intero”. Lo sappiamo anche dai resoconti sui kamikaze che ovunque ormai si fanno saltare in aria: anche i loro corpi vengono sempre ricostruiti quasi per intero. Persino gli attentatori di Nassiriya sono stati identificati nonostante guidassero una cisterna con 3 tonnellate e mezza di potente esplosivo militare. A Bologna, per la strage del 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria, invece no. Una donna che secondo la ricostruzione giudiziaria si trovava a oltre cinque metri di distanza da una valigia contenente la bomba non si è mai trovata. Scomparsa nel nulla quand’invece i resti degli altri passeggeri uccisi nella sala d’aspetto, anche quelli posizionati più in prossimità dell’esplosione (in piedi oppure seduti lì vicino) sono stati tutti ritrovati.

LA RICOSTRUZIONE

Ma per capirne di più occorre procedere con calma e seguire attentamente quel che viene ricostruito nell’ultimo capitolo del libro «I segreti di Bologna» del giudice Rosario Priore e del nostro collaboratore Valerio Cutonilli (Chiarelettere). Il corpo scomparso dal luogo del delitto sarebbe dunque quello di Maria Fresu, 24 anni, origini sarde, trapiantata in Toscana per lavoro. Quella mattina maledetta del 2 agosto Maria era in stazione con la figlia Angela di 3 anni in attesa del treno che avrebbe dovuto portarle in vacanza. Madre e figlia sono nella sala d’aspetto di seconda classe insieme a due amiche, Verdiana Bivona e Silvana Ancillotti. La terribile detonazione di una ventina di chili di un esplosivo “civile” causa la morte immediata della bimba e di Verdiana. Silvana è gravemente ferita, ma si salverà. «Di Maria, invece – scrivono gli autori – non si hanno più tracce. La donna non compare nell’elenco dei feriti, né in quello delle persone decedute». I periti escludono in modo categorico che possa essersi «disintegrata» e per alcuni giorni viene data per dispersa. I familiari, sgomenti, sperano sia ancora viva e vaghi da qualche parte in stato di shock. Parte allora un appello disperato, la foto della scomparsa viene pubblicata dai giornali ma nessuno sarà in grado di fornire indicazioni utili.

LA SOPRAVVISSUTA

L’unica persona che può dire qualcosa è Silvana Ancillotti, l’unica sopravvissuta. Nel verbale d’interrogatorio del 6 agosto redatto senza riportare il nome del funzionario della Polfer e con la firma in calce irriconoscibile dello stesso poliziotto, la donna spiega che Maria sua figlia Angela e Verdiana, al momento del botto erano tutte e tre lì, attaccate, vicinissime a lei. Maria non si era mai allontanata né per andare al bagno, per un caffè o per prendere un po’ d’aria. L’anno scorso, in occasione del 35esimo anniversario della strage, Silvana Ancillotti è tornata a quel giorno terribile affidando i suoi ricordi indelebili a Repubblica. Intervistata dal giornalista Emilio Marrese, la donna ha confermato pari pari quanto disse a verbale: «Mi ricordo tutto, tutto. Eravamo sedute tutte assieme, Maria no, era in piedi accanto. Mi ricordo il boato, un grande boato. Ho chiamato Verdiana, non mi ha risposto. Sono svenuta. Poi mi sono risvegliata sotto le macerie. Ho visto Verdiana e la bambina Angela, erano di spalle, non si muovevano. Verdiana forse aveva provato a proteggerla con il suo corpo, Maria non c’era più. Ho strillato, chiamato i soccorsi. “Aiutate le mie amiche”…». Nell’articolo è contenuta però una inesattezza. Marrese infatti scrive che «molto probabilmente nessun altro sopravvissuto alla strage del 2 agosto era più vicino di Silvana Ancillotti ai 23 chili di esplosivo che fecero saltare in aria la sala d’aspetto (…). Perché di Maria Fresu, mamma della piccola Angela, fu trovato, solo alcuni mesi dopo, appena un brandello di corpo sotto un treno: lei, ne dedussero, si trovava praticamente sopra la bomba che, unica tra le vittime, la disintegrò».

LA PERIZIA

Le cose, purtroppo, non stanno così. Secondo Priore e Cutonilli la perizia medico-legale del professor Giuseppe Pappalardo dimostra oltre ogni ragionevole dubbio che Maria Fresu, la figlia e le due amiche si trovavano dalla parte opposta della sala d’aspetto a quella dove era stata posizionata la bomba. Ovvero «nella parete laterale sinistra, e cioè, rispetto all’entrata, sita anteriormente e a destra, ove era stato depositato l’ordigno esplosivo». Gli autori aggiungono: «I consulenti hanno accertato che non tutte le vittime sono decedute per gli effetti diretti della detonazione. Le cause di morte diretta, al contrario, riguardano solo le persone (circa il 10 per cento degli 85 morti) che si trovavano a una distanza non superiore a 5 metri dal punto dell’esplosione, in un’area definita “mortale”. Quanti erano invece a una distanza superiore di 5 metri ma inferiore agli 11 sono morti per gli effetti indiretti della detonazione, a causa del cedimento del fabbricato o per cause indirette, in un’area definita “con danni molto gravi”. La piccola morirà per la frattura del rachide cervicale, ma verrà ritrovata intatta. Idem Verdiana, “deceduta per traumatismo cranio facciale cervicale torace addominale”. Silvana addirittura sopravviverà: erano tutte in quest’ultima area, lontana da quella “mortale”». La domanda viene da sé, e gli autori del libro la rilanciano pesantemente: «Se i cadaveri delle vittime collocate nell’area mortale sono rimasti sostanzialmente integri, com’è possibile che a disintegrarsi sia stata invece una donna posizionata in una zona ancora più lontana dal luogo dell’esplosione?». La teoria della disintegrazione di un cadavere distante oltre cinque metri dal luogo dell’esplosione non sta in piedi. Ai magistrati il dettaglio di Maria è interessato poco, men che meno la testimonianza di Silvana «che non ha mai testimoniato a nessun processo, nessun giudice le ha mai chiesto se avesse visto qualcosa prima delle ore 10.25», scrive Marrese nell’intervista del 2 agosto 2015 su Repubblica. E così è, perché agli atti del processo, a parte quel verbale senza verbalizzante della Polfer, nessun magistrato ha sentito il bisogno di ascoltare un teste preziosissimo. Come se non bastasse, va detto che la Fresu non può essersi “disintegrata” anche per un’altra ragione: perché i suoi effetti personali, ad esempio, sono stati rinvenuti intatti, s’è salvata persino la carta d’identità oltre alla valigia e a una giacchetta.

CHE FINE HA FATTO MARIA?

E allora la Fresu che fine ha fatto? Tutti i resti dei morti alla stazione sono stati ritrovati e i suoi no? Com’è possibile? La soluzione (apparente) del mistero a un certo punto viene ricercata nell’obitorio dell’istituto di Medicina Legale dell’università di Bologna. «In una cella frigorifera è conservato un piccolo lembo facciale attribuito inizialmente a una delle due vittime di sesso femminile rimaste sfigurate. Il prof. Pappalardo viene incaricato di verificare se la parte di volto sia appartenuta alla donna scomparsa». La perizia è complessa. Nel 1980 il test di oggi del dna è praticamente impossibile. Si conosceva però il gruppo sanguigno della donna scomparsa (“0”, zero) rinvenuto nella cartella clinica del parto della figlia. La collocazione lontana della Fresu nella sala d’aspetto. Intatti erano i reperti personali e i corpi della figlia oltre che dell’amica. E pure l’esame del profilo immuno-ematologico dava risultati sorprendenti: il lembo facciale repertato apparteneva ad un altro gruppo sanguigno: era di tipo “A”. Apparteneva una ottantaseiesima vittima mai identificata? Il professore escluse tale ipotesi affermando che quel dato incompatibile in realtà era compatibilissimo con la Fresu. Lo spiegò con il fenomeno della “secrezione paradossa” che non di rado causa errori nelle determinazioni del gruppo sanguigno. Può accadere, insomma, «che un individuo mostri nei suoi liquidi sostanze gruppo specifiche diverse da quelle che ha nel sangue». Tesi smentita dai medici legali di oggi. A giudizio del medico-legale di allora, dunque, quel lembo è della Fresu. L’unica secrezione paradossa della strage di Bologna appartiene all’unica donna di cui non si ritrova, comunque, un altro resto umano. La guancia è la sua, ma dove sia finito il corpo intero non c’è spiegazione. Come a tutta questa storia.

L’ORA DELLA VERITÀ

Posto che anche gli autori escludono categoricamente una responsabilità della donna scomparsa, non ci interessa alimentare veleni e sospetti, vogliamo solo risposte esaurienti. Le pretendiamo basandoci su quel che avete letto e che per 36 anni nessuno ha voluto trattare. Se nelle sentenze e nelle perizie si esclude categoricamente la disintegrazione di un eventuale trasportatore dell’esplosivo, allora una spiegazione bisogna trovarla per la Fresu, per i suoi parenti, per Silvana e per tutti coloro che vogliono la verità vera su Bologna. Gli autori del libro arrivano a una conclusione che appare logica seppur non supportata da riscontri di alcun tipo: «Nei processi bolognesi è stata esclusa la possibilità che persino i pochi filamenti di un circuito elettrico siano andati persi. Impossibile, quindi, che a sparire per errore sia stato un cranio o un cadavere rimasto in parte integro. La restante spiegazione è che il 2 agosto 1980 qualcuno si sia precipitato a Bologna per inquinare la scena del crimine». Un fatto gravissimo, «dovuto a ragioni che non devono essere banali. Maria Fresu è con assoluta certezza una vittima innocente della strage di Bologna e merita giustizia. La sparizione del cadavere, se realmente avvenuta, può essere dovuta solo a un occultamento più ampio e che aveva necessariamente altre finalità. Ma un attentato, pianificato dal trasportatore dell’esplosivo e perfettamente riuscito, non rende necessario un inquinamento del genere». Scoprire chi o cosa doveva restare nascosto quella mattina è compito di quanti hanno a cuore la verità su Maria Fresu e gli altri 84 morti ammazzati senza un perché. Ma se leggete l’intervista qui sotto al medico legale Arcudi, docente all’università di Tor Vergata, capirete che c’è altro che non torna. Perché se quel lembo facciale con quel gruppo sanguigno (“0”, zero) non può essere attributo alla donna scomparsa, deve essere necessariamente attribuibile a un’altra donna di gruppo sanguigno “A”. Ma nessuno dei cadaveri delle donne sfigurate aveva un gruppo “A”. Le altre donne morte hanno il volto integro. Chi ci capisce qualcosa, batta un colpo. (da Il Tempo)

@barbadilloit

Gian Marco Chiocci

Gian Marco Chiocci su Barbadillo.it

Exit mobile version