Calcio. Auguri a Gianfranco Zola, un talento sovrannaturale in una Magic Box

Gianfranco Zola
Gianfranco Zola

Troppo forte la tentazione di andarci giù pesante con la retorica. Gianfranco Zola, mica uno qualsiasi, ha appena compiuto cinquant’anni e pare ieri che s’è ritirato dal calcio giocato. Non è facile parlare di The Magic Box, il talento più autentico che la Sardegna calcistica abbia donato al pallone almeno nell’era recente senza lasciarsi travolgere dalla tentazione dell’amarcord.

Zola non è stato mai un campione banale. Anche se – per troppi – l’originalità si dimostra dagli atteggiamenti estrosi specie fuori dal campo, nel rettangolo verde il brutto anatroccolo di Oliena s’è fatto splendido cigno grazie al delicato svezzamento che dell’allora talentino sardo fece Diego Armando Maradona il quale, contemporaneamente, era gli ultimi fuochi col Napoli di Corrado Ferlaino. Il presidente, come racconta Luciano Moggi in “Il pallone lo porto io”, non avrebbe manco voluto comprarselo dalla Torres. E avrebbe sbagliato. Zola tenne in piedi la baracca azzurra come ottimo sostituto prima e come titolare poi dopo la fine del regno napoletano del Diez.

Passò poi al Parma di Callisto Tanzi, sfiorò e centrò imprese sportive meravigliose ma la vera consacrazione per Gianfranco Zola arrivò col Chelsea che ancora non era di Roman Abramovich. Gli inglesi, a digiuno, si rimpinzarono con le giocate fulminanti, precise e imprevedibili del folletto sardo. Folletto è ancora poco, però. Zola è stato, da calciatore, un vero balentes, nel senso antico e vero della Balentìa sarda non certo quello della lettura limitante e incapacitante dell’appropriazione indebita che di tale nobile concetto ha fatto certa stampa nel bollare la delinquenza barbaricina.

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Secondo chi di queste cose se ne intende, il termine e il concetto di Balentìa derivano dal demone (o forse meglio chiamarlo genio nell’accezione pagana del significato) Balente. Essere spirituale dalla forma sfuggevole (un toro? un cinghiale?), assumeva il controllo degli uomini spingendoli a compiere azioni di arditezza virile e coraggio guerriero al di là di ogni umana possibilità. Trasformandoli in veri e propri super-uomini, con un piede sulla terra e l’altro nel mondo delle potenze sovrannaturali. Un po’ come il mito originario del lupo mannaro dell’ulfhdenar, o degli Hirpi Sorani o dei Luperci di Roma antichissima.

Agli inglesi che pure hanno una singolare inclinazione verso l’occulto, non è sfuggito quell’aspetto misterioso del talento di Zola. E perciò gli misero a soprannome quello di Scatola Magica, dalla quale tutto poteva venir fuori. Un sinistro tagliato nell’angolino, una punizione inimmaginabile, una sola giocata che ti cambia partita e campionato.

Da uno come Gianfranco Zola ti potevi aspettare di tutto, anche che – una volta arrivato finalmente l’oligarca pieno zeppo di sterline che vuole rifare grande il Chelsea e costruirlo attorno alla sua leggenda – sparigliasse il campo decidendo di saldare il debito di gratitudine con la “sua” Sardegna, accettando di fare il capitano del Cagliari di Cellino.

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In queste ore c’è chi assume come dato di fatto una considerazione che non è certo incontrovertibile: Zola ha ciccato in nazionale e, a suffragio di tale tesi, porta la questione della sua (immeritata) espulsione nel dramma di Italia-Nigeria di Usa ’94 che risolse, per fortuna nostra, il buon Roberto Baggio. Non è vero che il talento di Oliena ha ciccato con la maglia azzurra. Anzi. Ha scritto la storia dell’Italia, a dir la verità. E lo ha fatto a Wembley dove, davanti a 75.055 spettatori convenuti a godersi Inghilterra-Italia, stoppò col sinistro il lungo lancio di Billy Costacurta per insaccare, di destro, sul primo palo della porta difesa da Walker. Anno domini 1997.

Auguri, dunque, a Zola il cui miracolo più assoluto è però ancora un altro: lasciarci credere che siano passati solo pochi mesi da quando ha punito gli inglesi e ha appeso le scarpette al chiodo.

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Giovanni Vasso

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