Libri. Oscillazioni, il disincanto aristocratico dell’anarca Federico Ferrari

SAVE0005Nel panorama intellettuale contemporaneo i filosofi di professione, pur essendo una categoria minoritaria rispetto ad altre specie di maîtres à penser, sono comunque presenti sulla scena mediatica in modo cospicuo. Da tempo ci chiedevamo se da qualche parte sopravvivesse (il verbo in questione è opportuno, data la mestizia esistenziale dell’epoca presente) non dico un filosofo in senso classico, ma un pensatore capace di riconoscere al filosofare un ruolo significativo per la vita. Abbiamo letto un recente libro che ci ha indotti all’ottimismo (cosa anomala per noi, “scettici” ad oltranza). Sì, ci siamo detti, chiusa l’ultima pagina del volume, ancora oggi fare filosofia è possibile. Un aforisma di Karl Kraus crediamo possa introdurre il lettore alle argomentazioni essenziali del libro che ci accingiamo a presentare: “Spesso la filosofia non è altro che il coraggio di entrare in un labirinto” (K. Kraus, Pro domo et mundo), nel labirinto della  propria esistenza e in quella degli altri, come nell’incessante ed inesauribile metamorfosi del mondo. A questo compito si è accinto Federico Ferrari in Oscillazioni. Frammenti di un’autobiografia da poco nelle librerie per SE (euro 18,00).

Muoviamo dalla conclusione delle argomentazioni di Ferrari “Se scrivi e, ancor più, se scrivi un’autobiografia è per lasciare traccia di una possibilità di vita” (p. 107). Un frammento di speranza? Forse, ma a condizione che l’ “autoritratto”  dell’autore, di cui daremo conto, sia esperito dinamicamente, esito mai definitivo che conduce, inevitabilmente, oltre, “Questo sei tu. Io sono già altrove” (p. 107). Poche parole che qualificano l’intero testo e, crediamo, il percorso esistenziale di Ferrari. La scelta espressiva dell’aforisma non è casuale, e non è neppur riducibile alla volontà di dissociarsi dalla saggistica, connotata da espressività anonima, priva di stile, incapace di trasmettere la risonanza più profonda della parola scritta. L’aforisma è, avrebbe chiosato Kierkegaard, comunicazione d’esistenza che non si rivolge al lettore qualunque, ma al singolo, coinvolgendolo nell’interezza del suo essere, in quanto implicato nella vita di cui si dice. Questo tratto del  libro di Ferrari rende contraddittorio il recensirlo (ma noi amiamo la contraddizione!). La recensione, infatti, ha per referente il pubblico anonimo, mentre questo libro è ascrivibile ad una filosofia dei pochi. Muove dall’assunto che “Il vero mistero non è il nulla né l’essere, ma il passaggio senza fine dall’uno all’altro” (p. 34), è ciò induce a pensare che la parte più rilevante della pagina di Ferrari sia individuabile nel frammento bianco che distingue un aforisma dall’altro: il testo implicito. Il bianco è per antonomasia rinvio all’indistinto: nell’Odissea enargés indica l’epifania divina, il bagliore del bianco come sfondo e abisso. Per questo l’autore sostiene che “Solo dall’imperfezione del frammento, dalla ferita che si apre tra un frammento e l’altro, può nascere una perfezione più alta, una singolarità estetica e morale irripetibile” (p. 35).

In questo modo gli aforismi, onde del mare del pensiero, dal quale in qualche modo siamo pensati, ci conducono alla loro origine. Ferrari si interroga sulla provenienza della parola scritta ma anche sul luogo a cui essa rinvia “Dal significato all’indistinto, questa mi è parsa la sola risposta possibile” (p. 11).  Dire l’indistinto, nominarlo, significa aver contezza che noi e tutti gli enti siamo spruzzi di schiuma sulla cresta dell’onda. L’indistinto è “il fondo senza confini dell’esistenza” (p. 12), che l’arte, dopo l’annuncio ottocentesco della morte di Dio ha rappresentato esemplarmente nel fondo oro, “la luminosità del nulla” (p. 27). In tal senso Ferrari si pone al di fuori dei paesaggi consueti e noti della tradizione speculativa europea e in un afflato antihegeliano (o meglio, a-hegeliano) riesce ad affermare “Tutto ciò che è irrazionale è reale e tutto ciò che è reale è irrazionale” (p. 35). Al contempo, esplicita il suo porsi in continuità con una tradizione di pensiero novecentesca, tutta italiana, rappresentata da Rensi, Michelstaedter, Campo e Ceronetti. Sequela inaugurata da Leopardi, illustre antecedente del pensiero-poetante, a cui anche Ferrari sembra rinviare nel tentativo di conciliare vocazione poetica e teoretica in uno. A questi nomi se ne potrebbero aggiungere molti altri che risuonano nelle pagine di Ferrari. Tra essi potrebbero essere annoverati quei giovani studenti di Antonio Banfi che, nella Milano degli anni Trenta, lessero la vita sospesa tra l’apparire e lo scomparire. Figura eminente di quella “brigata (ahimè) suicida” la     poetessa Antonia Pozzi. In ogni caso, l’autore è cosciente che l’esercizio del pensiero e della scrittura sono espressioni, non semplicemente individuali, ma di una comunità invisibile ai più, che accomuna i morti e viventi e che, come torrente carsico, ha attraversato la cultura europea dal De Amicitia di Cicerone alle opere di Aldo Capitini “La solitudine che ti rende estraneo al tuo tempo, è indice di una comunione più profonda con coloro che ti hanno preceduto e che non smettono di accompagnarti, silenziosamente, in ogni istante della tua vita” (p. 12).

Da ciò discende il tratto aristocratico, da anarca, di Ferrari. I suoi pensieri sono connotati, certo, dalla deprecatio temporis, ma mai scadono nella lamentazione sterile o nel rimpianto reazionario.  Sono sostenuti dalla scoperta del nulla-libertà quale origine e destino, che consente di rilevare la meraviglia quale momento essenziale della vita e di rifiutare le idolatrie contemporanee, dalla psicanalisi alla democrazia. La prima considera “la vita una patologia” (p. 17), la seconda va mostrando, nella sua forma attuale, come rilevò con acume, un altro maestro di disincanto, Andrea Emo, la sua epidemicità etimologica:  apparato istituzionale che si sovrappone ai popoli limitandone gli spazi di libertà, la democrazia quale “tecnologia del potere” (p. 32). Altro aspetto rilevante:  Ferrari, nel discutere l’interpretazione eliadiana dell’ierofania sostiene che l’altro, vale a dire l’indistinto, può “darsi in ogni luogo e in ogni momento. L’immanenza diviene lo spazio della trascendenza, l’immanenza è la trascendenza” (p. 100).

Non ci pare un caso che il successivo aforisma faccia i conti con Julius Evola che della trascendenza immanente fu teorico “Leggendo Evola la sensazione che abbia colto molto di essenziale, ma allo stesso tempo ribrezzo per il suo razzismo, più o meno camuffato di spiritualità” (p. 100). Ora, al di là del fatto che per noi il razzismo spirituale di Evola non è un camuffamento,    ciò che Evola ha capito di essenziale è esattamente ciò che Ferrari propone nelle pagine del  libro: il principio-infondato, l’indistinto, è la Libertà che, in quanto tale, riscatta la fatticità dall’entificazione cui essa è stata ridotta dalla metafisica (in senso heideggeriano). La libertà-principio è sempre possibile, in ogni luogo e tempo. L’autore rileva davvero il pensiero centrale dell’evolismo ed ha ragione nel sostenere che “probabilmente, si è compresi solo da coloro con cui non si ha nulla a che spartire. Chi è prossimo non fa che fraintendere” (p. 90), anche perché “Vi sono alcuni che sono a tal punto reazionari da essere avanguardisti” (p. 50). Un libro vero, dunque, Oscillazioni, un libro per tutti e per nessuno.

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Giovanni Sessa

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