Euro2016. Belli, disperati e (a volte) vincenti: l’impresa d’Islanda e la tempra di Kiraly

islanda festa
La festa islandese dopo la vittoria storica ai quarti contro ll’Inghilterra (foto tratta da pag. uff fb della selezione calcistica dell’Islanda)

È incontestabile che Euro2016 sia l’europeo delle sorprese. O meglio, delle previsioni ribaltate. A partire dalla grinta e dal coraggio degli Azzurri che dominano e stecchiscono una Spagna spaesata, altezzosa e inconcludente, fino al miracolo dell’Islanda, circondata, protetta dal suo popolo sognatore, che ha avuto la meglio su un’Inghilterra spregiudicata ma priva di sostanza. Già, perché forse la chiave per capire tutto ciò è proprio riuscire a vedere l’intera competizione come uno scontro perenne fra forma e ranking contro coraggio e sostanza. Due forze complementari, nemiche, che si danno battaglia in ogni match. La conseguenza naturale è che questo sia l’Europeo degli idoli. Ci siamo innamorati pazzamente di Gabor Kiraly che difende la fortezza ungherese contro i colpi inflitti dal Belgio blasonato –che finalmente sembra giustificare le altissime aspettative-: l’ultraquarantenne con la tuta è dovuto soccombere ma non senza prima aver combattuto, esaltandosi in sbalorditive prodezze fra i pali. Ma per fortuna ci sono battaglie che hanno un lieto fine: i ‘vichinghi’ islandesi, infatti, brutti, sporchi, cattivi, rozzi, sbeffeggiati nel pre-partita, guidati da un dentista part-time e non da un coach da 4.6 milioni di stipendio, a testa bassa generano una Brexit calcistica, ammutolendo Rooney & Co. Eroi del calcio, imperversano per novanta minuti, annullano gli inutili preziosismi dell’Inghilterra. Eccolo, l’eroismo, l’orgoglio, il carattere dell’icona Gunnarsson, forzuto capitano che a fine partita comanda l’intero gruppo in una pazza danza, la rabbia folle che smentisce ogni palinsesto. Eccolo, il popolo rinato che s’immedesima, si fonde con la squadra (un decimo della popolazione era allo stadio) e con le urla del telecronista islandese. Un rito? Un culto? Può darsi.

Gabor Kiraly durante un allenamento (foto da profilo ufficiale Fb del portiere ungherese)

Su questa linea d’onda, ma con più classe, ci poniamo anche noi; anche noi, duri, anti-calcio, mediocri, ma consapevoli, già dall’Inno, del fatto che l’energica determinazione ci avrebbe potuto far vincere: e così è stato. Sudore e vittoria, Conte in piedi, rigido, che dirige, urla e calcia, stizzito, un pallone, che tiene coeso un gruppo che vola contro la Germania, dopo aver lasciato a bocca aperta un placido Vicente del Bosque, convinto di essere venuto per fare ancora una volta accademia e sbaragliare il catenaccio. E invece no: i “grezzi”- di cui qualche lamentoso evidenzia con sdegno la “troppa poca multietnicità”, tralasciando volutamente la prestazione e la vittoria di ieri – hanno avuto ragione dei raffinati spagnoli. A volte l’essenza e l’alchimia ai limiti del possibile vincono poeticamente sul tronfio avversario.

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Francesco Petrocelli

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