Artefatti. Carmelo Bene sarebbe contro il calcio moderno?

Carmelo Bene durante lo spettacolo concerto ''mi presero gli occhi'' a Roma il 10 gennaio 1984. L'attore Carmelo Bene, il cui decennale della scomparsa cade il 16 marzo, nato a Campi Salentina (Lecce) il primo settembre 1937, uscì "indenne", come amava dire, nel 1959 dall'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico, che gli dette comunque i fondamenti su cui lavorare, i punti di appoggio da abbattere o rivoluzionare, cominciando con l'usare un autore "eversivo" come Majakovskij. Dopo viene il "Caligola" e inizia la fama di provocatore di Carmelo, estremamente critico nei confronti del degrado culturale e sociale del mondo che lo circonda, che, per una quarantina d'anni, sarà protagonista delle nostre scene, parametro inevitabile in positivo e in negativo, creatore prolifico di spettacoli storici, autore di romanzi, creatore di film con la voglia, anche lì, di reinventare il cinema, fascinatore di pubblico con i suoi recital poetici. ANSA / ANSA

Quello del mescolamento di alto e basso, intesi come opposti cardini culturali elitari e popolari, pare essere divenuto requisito imprescindibile per la comunicazione contemporanea. Perché poi altrimenti la gente non capisce, sicché l’astuto divulgatore s’ingegna nell’opera d’impasto, iniettando con circospezione dotte citazioni nel corpo pop degli interessi diffusi. Pensiamo alla tv, ai social-network, ma soprattutto al gioco del football, vera passione nazionale che travalica qualsiasi casta. L’evasivo quanto partigiano immaginario calcistico – attualmente trasfigurato, a discapito del sudore proletario, in reality semovente per celebrità tatuate – ha sovente catalizzato l’attenzione degli intellettuali; pensiamo a Pier Paolo Pasolini, Albert Camus, Eugenio Montale, Jean Paul Sarte, ad esempio. Pensiamo soprattutto a Carmelo Bene.

Il caso a parte del genio otrantino, tuttavia, si discosta dal semplice interesse sportivo, travalicando non solo il tifo, ma ovviamente pure la consueta dialettica da “italiani tutti allenatori”, ampiamente diffusa nei migliori bar della penisola. Come ottimamente sintetizzato dal confronto con Enrico Ghezzi, nel volume edito da Bompiani Discorso su due piedi (il calcio), nonché dalle apparizioni televisive nel contesto di quei programmi-pollaio dove tutti s’accalorano vanamente, lo sguardo di Bene rivolto al calcio non è dissimile da quello esercitato nei confronti di qualsiasi altro argomento. Al centro c’è sempre l’assenza, l’oblio dell’io, l’incepparsi dei pedagogici conforti, l’oltrepassamento di una determinata condizione cautelativa, il “sacrificio” del possibile in nome dell’inutile, dello sperpero di sé.

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Carmelo Bene riflette sul gioco partendo dall’etimologia doppia del termine: riflettere come pensare e riflettere come specchiare. Questa doppia flessione, oltre all’irrilevanza del risultato sportivo, porta a cogliere certe sospensioni agonistiche non dissimili dai messaggi subliminali – velocissimi flash impercettibili – presenti nelle vecchie pellicole cinematografiche (ne trattò il film Fight Club), oppure alla vivisezione meccanica della moviola, laddove si cerca di cogliere l’invisibile, l’errore, lo scarto, tutto l’impossibile celato, aborrito attorno al gesto atletico. Fantasmi. Tant’è che oggi, per eccesso di visibilità tecnologica – come l’esagerazione di luce che acceca e porta al buio – tutto il baraccone calcistico pare deragliare nell’illusorio, in una imponderabile ed aliena costruzione virtuale. Sarebbe piaciuto a CB questo trapasso dello sport nell’osceno? Questa deriva pornografica del rito collettivo? Chissà, forse si, nell’ottica di “accelerare il declino”.

 

Quello che è certo, oltre al fuori scena che aleggia attorno al pallone, è per l’appunto il disfacimento dello scopo – fare goal – apparentemente a tutto vantaggio di un attimo estetico ed estatico che unisce pieni e vuoti, nell’inspiegabile artifizio del contingente momento geniale. In realtà, per Bene, il calcio trova la sua dimensione metafisica in alcune “pause terrene”, presenti/assenti sia in campo che sugli spalti. Per CB era interessante il sostanziale disinteresse del pubblico per l’esito della partita, tutto concentrato com’era a tramutarsi in un unico corpo mistico, nell’abnegazione catartica dell’io in favore di allegoria e phoné: indistinto cromatismo di bandiere e suono liturgico dei cori. Così in campo, cogliendo acutamente certe fluttuazioni nell’imponderabile: le velocizzazioni circensi di Maradona, la “meccanica divina” di Van Basten, l’invisibilità dell’uomo “senza-palla” Paulo Roberto Falcao. Perché finalizzare, segnare, capitalizzare, quando la partita potrebbe tramutarsi in musica, danza, teatro? Tre esempi, infatti, che raccontano di una logica travalicata per eccesso.

Contestualizzando il “vivacchio” della Hamlet Suite beniana, potremmo qui tradurre in “giochicchio” tutto il non detto a proposito, intendendo con ciò l’eclissi agonistica, la sparizione non solo della palla ma pure del giocatore, l’inanità dello sforzo e delle presenze in campo, queste ultime redente unicamente dall’abitudine, dall’immobilità dell’azione rappresentata – come in una partita a scacchi – e ben circoscritte nel sunto perfetto: il calciatore diviene artefice non quando gioca, bensì quando è giocato.

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Donato Novellini

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