Artefatti. Ezra Pound, la bellezza antica e oscura che accecò gli stolti

ezra poundCaptans annonam maledictus in plebe sit, ovvero, secondo le parole di Sant’Ambrogio: Monopolizzatori delle raccolte, maledetti siate fra i popoli! Così titola uno dei capitoli di Lavoro ed usura, elegante volumetto dalla copertina ocra, ristampato nel 1996 per le edizioni All’insegna del pesce d’oro. Si tratta di una raccolta di testi d’argomento economico, scritti dal grande poeta Ezra Pound tra il 1933 ed il 1944 e pubblicati coraggiosamente da Vanni Scheiwiller nel 1954. In quel periodo, infatti, lo scrittore americano si trovava internato in un manicomio criminale a Washington e sul suo capo pendeva la condanna a morte per tradimento. Lo liquidarono poi come folle, dopo dieci anni di segregazione nella patria delle libertà. L’adesione entusiasta al fascismo, poco e mal corrisposta, ribadita dal poeta “straniero” fino all’ultimo giorno di Mussolini, ebbe come prima conseguenza la prigionia nel campo di reclusione allestito dagli alleati in toscana; trattato come una bestia pazza, senza servizi igienici e privo di riparo dalle intemperie, in una gabbia dalle spesse sbarre di ferro, ridotto in grave stato di prostrazione, Ezra Pound scrisse qui i celeberrimi Canti Pisani, con tutta probabilità l’apice del suo inclassificabile genio.

Non un “cavallo vincente”, insomma, per l’editoria italiana, considerando pure che la Repubblica fondata dall’antifascismo ancora non aveva compiuto dieci anni e che le operazioni di censura riguardo al precedente regime erano in pieno corso. Echeggiavano ovunque questi termini: “collaborazionismo” ed “epurazione”, dunque la situazione non era affatto agevole per l’unico americano che era riuscito a perdere la guerra. Certo è che quel bel volto di vecchio, solcato da profondi segni, ebbe la sventura di insozzarsi di contingenza pur intendendo poetare vertiginosamente alto, incurante dei rischi e per lo più incompreso dai fascisti prima come dagli antifascisti dopo. La pubblicazione di testi siffatti, così fuori protocollo (oggi a maggior ragione, in tempi d’impudica sottomissione generale alla finanza), imperniati com’erano sull’accusa – nei confronti del sistema economico e politico internazionale – di usura legalizzata, fu uno dei molteplici gesti solidali organizzati dalla comunità letteraria del dopoguerra per togliere dagli impicci Pound. Ferlinghetti, Hemingway, Allen Ginsberg, Pasolini, resero tutti omaggio allo scapigliato poeta definitivamente stabilitosi nell’amata Italia – a Rapallo, Merano, Roma e in una Venezia affascinante, ancora in bianco e nero – facendone icona trasversale per i barbuti utopisti della beat generation.

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Per approfondire la posizione dello scrittore, nel passaggio tra l’approvazione delle politiche mussoliniane e l’oblio immediatamente seguente al termine del conflitto, saranno utili come guide due libri: Radiodiscorsi (Edizioni del Girasole, 1998) e Pound, Il grande fabbro della poesia moderna di Humphrey Carpenter (Rusconi, 1997). Il primo, arricchito da un testo di Piero Sanavio, primo italiano ad occuparsene con una tesi di laurea, raccoglie una cinquantina di interventi (dal 1941 al 1943) trasmessi da Radio Roma, per la trasmissione American hour, destinata al pubblico anglofono. Il secondo, seppure viziato dai tic del biografismo caratteristico delle produzioni “di genere” anglosassone, permette in più di mille pagine di inquadrare in maniera particolareggiata il rocambolesco evolversi degli eventi. Da entrambe le pubblicazioni, comunque, emerge il ritratto di un personaggio straordinario, contraddittorio e stralunato, irreparabilmente intriso di romanticismo donchisciottesco e di visionario spirito novatore: nemico irriducibile dei potentati economici, libertario ed antiautoritario, ingenuo e pacifista, ostico poeta modernista, cosmopolita – americano con lo sguardo rivolto all’Europa – tuttavia affascinato dal tardo medioevo italiano quanto dal confucianesimo cinese, mancò l’appuntamento con il premio Nobel per la letteratura proprio a causa delle sue posizioni controverse filofasciste, posate da noiosi notabili svedesi sulla bilancia, pendente come noto sempre a favore di innocui vincitori.

Una traiettoria artistica, politica ed esistenziale, quella di Pound, che riserva molti aspetti in comune con un’altra romanzesca vicenda, messa in scena però oltralpe, ovvero la corsa “al termine della notte” che riguardò Louis Ferdinand Céline. Anche il dottor Destouches, infatti, poco si presta ad essere reclutato come propagandista ufficiale dalle partigianerie di contrapposto colore, a maggior ragione se brandito piuttosto che letto: antiaccademico, rinnovatore della lingua (proprio come Pound attingendo al passato, rivisitando brillantemente l’argot parigino), viaggiatore avventuroso del mondo nuovo prima ed esiliato con pubblica onta poi, contrario alla guerra, medico dei poveri, osannato e dimenticato, inserito o escluso in base agli sbuffi del vento politico nella cultura ufficiale. Nel caso di Ezra Pound, però, c’è forse qualche ostacolo in più per poter affermare di saperne qualcosa, principalmente dovuto alla complessità labirintica dell’opera. Similmente all’Ulisse dell’amico Joyce o al metalinguaggio tipico dell’altro sodale T. S. Eliot, I Cantos di Pound fondono sperimentazione ed arcaiche suggestioni, restituendo una colossale babele fagocitante, l’allucinante esperanto forgiato sull’incudine del tempo. Di un tempo fuori dal tempo, per luoghi resi caleidoscopici dall’imprevedibile arbitrio onirico.

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Associazioni mentali, personaggi storici d’ogni epoca, attualità e canzone trobadorica, teoremi economici, toponomastica cosmica, broccati rinascimentali e cavallereschi scenari medievali, mitologia e religione, cacofonie e musica, latino e greco, ideogrammi; tutto è mescolato nei Cantos, tutto è fluido ed apparentemente instabile, quasi pericolante. Tra frammenti, canti postumi, versi prosaici e dediche, l’impianto poetico poundiano s’inerpica come sulle montagne russe, per poi discendere con improvvisa foga in oscuri abissi; è, la sua, un’anti-scrittura raffinata ed astrusa, un’esperienza sensoriale destabilizzante, futuristica ma allo stesso tempo bramosa di trovare saldi appigli e robuste radici. Classicismo deviato, centrifugato con suggestioni dantesche e detriti sbriciolati d’avanguardia novecentesca, l’epos poundiano vola libero e giocoso, sorvolando la storia e le sue meschine trappole: “Quello che veramente ami rimane, il resto è scorie. Quello che veramente ami non ti sarà strappato. Quello che veramente ami è la tua vera eredita”, così recita l’incipit del canto LXXXI (da I Canti pisani)

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Donato Novellini

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