Cinema. “The Hateful Eight” di Tarantino tra Sergio Leone, Agatha Christie e Alfred Hitchcock

tarantino-hateful-eight-575362-1L’ottavo film di Quentin Tarantino, The Hateful Eight, è un western sulla neve del Wyoming che dopo aver mostrato il paesaggio gelato si rinchiude in una merceria-rifugio (quella di Minnie e Sweet Dave). Mescola Sergio Leone con Agatha Christie e Alfred Hitchcock, e, ovviamente, cita se stesso in una circolarità ammiccante che ormai è divenuta canone.

La trama

Sette uomini, una donna (odiosi e pieni d’odio) e la lettera di Abraham Lincoln (a uno di loro). Due cacciatori di taglie, una assassina, un generale sudista, e quattro killer – di cui uno ben nascosto –, si confrontano in un gioco di bugie e violenza, con il solito raffinato stile estetico-linguistico di Tarantino. Sei capitoli – con titolo – scandiscono la mattanza, accompagnata con la lentezza e i dettagli da romanzo russo.Dagli stivali nazisti – dei bastardi – alle caramelle, dallo stufato al caffè, dai visi alle pistole, si apparecchia quello che è un combattimento a otto, fatto di alleanze provvisorie e nessuna lealtà se non al proprio ego. C’è un solo vero duello, generato da una di quelle storie che Tarantino adora inserire nei suoi film (ricordate l’orologio che Christopher Walken– capitano Koons – consegnava a Bruce Willis – Butch Coolidge – su richiesta del padre morente in Pulp fiction?), arriva un punto nel quale non resiste e deve dire allo spettatore: Adesso ti racconto una storia.

Questa volta c’è un pompino – non clintoniano – di mezzo, ed è una scena che nemmeno Malcolm X avrebbe mai immaginato possibile in tutti i cinema americani a Natale.

Il resto sono esecuzioni e preparazioni a queste. Non c’è pietà, ma un registro che è più violento de Le Iene che a tratti bordeggia l’horror. In molti ci vedranno metafore, lezioni, riletture, è Cinema. Tarantino acquisisce e rimescola, inventa e stupisce, riscrivendo sempre se stesso. Basta aprire una porta un numero limitato di volte e avere una idea con buona una inquadratura dall’alto per tenere inchiodate tre ore le persone davanti allo schermo. È il come. È la metamorfosi. È Tarantino. La sua inclinazione individuale al rimescolamento alto/basso, senza tante chiacchiere e fumosità sociali. È la complessità del reale che viene ricondotta a un dettaglio all’interno di una scena che ha al centro una discussione – apparentemente – surreale, ma sta acchiappando per il petto la vita, l’epoca, la persona che ha deciso di raccontare. Così, pochi anni dopo la Guerra Civile americana, è l’old Mary Todd che richiama Lincoln a letto, a segnare la vera grande utopia, la dolcezza di avere una donna dalla quale tornare, che ti chiama mentre scrivi una lettera a un maggiore – nero – dell’esercito nordista che sta diventando un esempio. È la normalità del sogno. Senti il quotidiano, vedi il loro pranzo, gli impegni, i discorsi, riesci a leggere tutto quello che il paese di quell’uomo sarà. E non importa che lettera non sia vera, non importa che non ci sia nessun rapporto tra il presidente e il maggiore – ora cacciatore di taglie –, importa che ci sia quell’orizzonte, l’old Mary Todd, che diventa il punto da raggiungere: la pace, l’amore, la sicurezza (da comodino). Conta l’emozione del racconto o della bugia (mettetela come vi pare) la cui difesa scatena la Storia, spesso con l’accompagnamento della violenza. Inseguendo la Giustizia collettiva che si distingue dall’auto-giustizia per la razionalità. È una questione di essere adeguati o meno, mentre il caos e l’ordine si avvicendano, passando sui cadaveri di chi si oppone all’uno o all’altro. Tarantino è il testimone migliore possibile, è Melville che ascolta i marinai e poi scrive Moby Dick, è l’uomo che si oppone a Dio, uscendo dalla normalità.

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Marco Ciriello

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