Questionario proustiano sulla scuola#7. La preside De Biase: “Integrare cultura e realtà”

Maria De Biase
Maria De Biase

Ha iniziato a insegnare a 18 anni, nel napoletano, e subito ha cercato di innestare nella didattica lo studio della realtà e l’educazione all’impegno che si direbbe ‘civile’: con progetti centrati di volta in volta sulla legalità, l’ambiente, la lotta al degrado e all’inquinamento da rifiuti tossici. Poi, nel 2007, Maria De Biase ha vinto il concorso per diventare dirigente scolastico e da Napoli si è trasferita a San Giovanni a Piro, lasciando a bocca aperta le insegnanti che aspettavano la “preside di città”. Le sue innovazioni sono cominciate con la creazione di orti sinergici nei giardini di scuola, il compostaggio dei rifiuti, il riciclo, la colazione fatta con pane e marmellata e la merenda a pane e olio, il ritorno a quelle tradizioni semplici e spesso più intelligenti di tante nuove mode – perché, come scrisse Manzoni, “non sempre ciò che vien dopo è progresso”.

Ora, trent’anni dopo il suo primo giorno in aula, Maria dirige diciotto plessi scolastici, è responsabile di 1200 alunni e da sola fa il lavoro di tre dirigenti scolastici. I suoi mille e più bimbi hanno dimenticato le merendine confezionate, sanno che non bisogna bruciare la plastica e come si raccolgono le fave nell’orto, conoscono i tempi di maturazione del grano, si muovono a piedi, partecipano a progetti teatrali. Maria De Biase è stata più volte premiata per il suo impegno, però la burocrazia italiana non ha ancora smesso di mettersi di mezzo, le polemiche e gli ostacoli ci sono, non tutti sono contenti delle soluzioni che propone. Chissà cosa potrebbe fare una persona piena di passione e coraggio, nel nostro paese, se ci fossero in giro meno ignavia e pregiudizi e più lungimiranza…

La scuola di oggi riesce a dare agli studenti gli strumenti per affrontare le necessità di questo tempo? È ora di riformare radicalmente i suoi programmi? Partendo da cosa?

Questa è una scuola molto vecchia, che non riesce a mettere i ragazzi nelle condizioni di rispondere alle necessità del proprio tempo. Un po’ perché è usurata la struttura, un po’ perché manca la formazione iniziale. Io sono molto arrabbiata con i docenti, perché io sono stata insegnante per molti anni e non concepisco quest’idea che uno, una volta entrato nella scuola, poi non si interessi più alla propria formazione. La Buona scuola, con i 500 euro a disposizione per l’approfondimento culturale, ha fatto un piccolo, timido tentativo… ma l’emergenza più grande resta questa. Gli insegnanti di oggi non conoscono nulla del mondo dei giovani, dei bambini. Si trovano davanti degli alunni che per loro sono degli estranei.

Che cosa cambierebbe, che cosa toglierebbe, che cosa introdurrebbe? 

Introdurrei formazione, tanta formazione: degli insegnanti, ma anche dei dirigenti scolastici. Oggi la situazione di questi ultimi non è delle migliori: hanno basi il più delle volte insufficienti e schizofreniche, sono oppressi dalla burocrazia e hanno a disposizione poco, pochissimo spazio per ragionare sulla didattica. Ecco perché la maggior parte di noi dirigenti si trasforma in burocrate. Invece, bisognerebbe affidare tutta la parte amministrativa e gestionale sempre di più ai DSGA, i cosiddetti segretari, mentre il dirigente scolastico dovrebbe occuparsi di garantire una buona didattica e gestire tutta la parte culturale. Di pedagogia, per esempio, oggi non parla più nessuno. Io, un po’ per la mia indole tendenzialmente ribelle, un po’ per la mia formazione (sono laureata in Lettere e Filosofia), cerco invece di occuparmene, malgrado mi trovi sempre più schiacciata dalla burocrazia. La burocrazia ci assedia e ci soffoca, rallenta, blocca e sembra boicottare la parte didattica. Ma allora, se tutti gli uffici, tutto il personale gestionale e i dirigenti scolastici sono risucchiati nello stesso vortice burocratico, in una scuola chi dovrebbe pensare alla didattica? Quante belle cose si potrebbero fare, invece, se ci si mettesse in testa di ridare spazio alla pedagogia? Per quanto mi riguarda, tutto quello che riesco a realizzare è solo il risultato della mia caparbietà e testardaggine, tanto che molti miei colleghi dirigenti mi chiedono come faccia. Semplice: riesco a infilarmi nei pochi spazi che mi lascia libero il mio lavoro e poi cerco di delegare tutta la parte burocratica a dei bravi collaboratori.

Come potrebbe una buona scuola favorire l‘inserimento nel mondo del lavoro?

La scuola deve insegnare ai ragazzi innanzitutto a essere e a imparare a imparare. I saperi che oggi si trasmettono sono astratti, troppo lontani dalla realtà. Ci vorrebbe invece una scuola del fare. Credo che sia doveroso occuparsi di green e bleu economy, di alimentazione sana, di produzione di cibo biologico, di temi come il risparmio energetico, la gestione dei rifiuti, il riciclo, e insegnare queste buone pratiche, oltre a imporre il solito apparato di dati.

Un ragazzo, oggi, pensa ancora che il lavoro sia quella realtà che ti viene incontro non appena hai in mano un titolo di studio, se sei bravo, ma purtroppo non è vero. La scuola va ricontestualizzata in questo nostro mondo nuovo; dobbiamo guardarci intorno per capire cosa e come insegnare. Io, per esempio, mi trovo in un luogo bellissimo, di mare, di escursionismo. In questo caso, sarebbe bene pensare a un turismo nuovo, a un tempo libero nuovo, trekking, camminate, ecosostenibilità: tutta la zona potrebbe offrire un grande sbocco nel mondo del lavoro se i ragazzi venissero educati e orientati in tale senso. Invece stiamo ancora a pensare che i giovani facciano i geometri che non studiano la storia dell’arte – e poi abbiamo visto le brutture che si realizzano… Quest’Italia muore di dissesto, di alluvioni, mentre ci sono tantissimi ragazzi che potrebbero essere impegnati per un nuovo modo di intendere la casa, le città, l’eco-sostenibilità, l’attenzione ambientale.

È ancora sensato puntare a una pedagogia di tipo etico-astratto, idealistico, invece che funzionale? Non è un prendersi in giro fingendo vivo un universo di valori assoluti che la storia recente ha ucciso? La formula “serve per aprire la mente” non ha il sapore di un’illusione?

Una buona formazione di base, quella che una volta si chiamava la cultura generale, è il supporto. Poi, sopra, occorre metterci il nuovo, che è quello di cui parlavo prima: i bisogni di questo paese, le necessità e i limiti del contesto in cui viviamo. Alcuni giorni fa ho partecipato a un convegno sui veleni ambientali e non c’era nessuno delle scuole superiori. Questo è il problema: i docenti non sensibilizzano i ragazzi rispetto ai problemi attuali; pensano che sia più giusto studiare il terzo canto del Paradiso (che anch’io considero fondamentale, ma è senza senso se poi non viene conciliato con un orientamento pratico, intelligente verso i nuovi bisogni). Manca l’integrazione tra la cultura classica e la realtà. E quando non si sente l’emergenza, l’utilità pratica, contestuale, di un insegnamento, lo si rifiuta.

Questa scuola che si accartoccia su se stessa, che indica le cose che si devono sapere e non offre nessuna alternativa, è destinata a fallire.

L’alfabetizzazione di massa è un problema ormai superato. Varrebbe la pena lasciare, fin dalle elementari, più libertà di scelta agli studenti e alle famiglie, sia per quanto riguarda la possibilità di specializzarsi in certi ambiti piuttosto che in altri, sia per quanto riguarda gli orari in cui frequentare la scuola? Mantenere magari un minimo di ore obbligatorie e renderne facoltative e personalizzabili altrettante?

È vero ma non del tutto, e non sempre. Certo, nella maggior parte dei casi il problema è stato superato, però bisogna tener presente che ci sono zone come quella dove mi trovo io, la dorsale appenninica, i piccoli paesi del Cilento interno, che non offrono grossi stimoli culturali. In questi piccoli paesi è ancora utile un’alfabetizzazione di massa. Ci sono famiglie che sentono troppo lontana la scuola pubblica e preferiscono non mandare i figli a scuola. Però è chiaro che bisogna cominciare a essere più flessibili, meno rigidi, offrire più alternative, essere più aperti. Ma chi lo deve fare? Quali docenti? Docenti sessantenni, stanchi, antichi, arretrati, depressi? Quali sono i docenti che dovrebbero attuarla, questa bella pedagogia? Manca la materia prima…

Non è necessario, sempre, dalle elementari alle superiori, lasciare ai ragazzi del tempo per coltivare altre qualità oltre all’efficienza della mente?

Certo. Lo dicono da qualche migliaio di anni: mens sana in corpore sano. Ci vuole la testa, ci vogliono le mani e ci vuole il cuore. Ci vuole la passione, ci vuole il fare, ci vuole il pensiero. Sono tutte e tre dimensioni fondamentali. Bisogna assolutamente smetterla di privilegiare la dimensione del pensiero. Abbiamo visto che non abbiamo realizzato molte cose buone educando solo la nostra testa, perciò non è un modello che dobbiamo difendere. Io sono un’accanita sostenitrice degli studi classici, però la mia terra d’origine, che è la Terra dei Fuochi, piena di licei classici, dimostra che il pensiero, da solo, non è in grado di dare buoni frutti.

I miei oppositori insistono nel dire che la mia è diventata una scuola dove si perde tempo, dove i ragazzi non apprendono. Come a dire che l’apprendimento sia esclusivamente quello dei libri, e come se le forme di apprendimento non fossero altre – soprattutto le altre. Io ritorno sempre alla prima risposta: la formazione. Potrei scrivere dei trattati su come dovrebbe essere la scuola, dopo trent’anni che ci lavoro, che ci sto, che ci penso. Però, la materia prima non c’è. Con chi puoi realizzare i progetti? Ogni tanto c’è qualcuno di più illuminato, bravo, capace, ma la maggior parte dei docenti non è all’altezza del proprio compito. Noi ci occupiamo di educazione; io leggo tantissimo, ho riviste, abbonamenti, frequento corsi, mi documento su internet, ogni giorno dedico almeno due ore alla mia formazione. La maggior parte dei miei docenti ha letto l’ultimo libro trent’anni fa. Al massimo leggono il gossip dei parrucchieri. Quando io distribuisco loro del materiale, degli opuscoli, non li guardano, non c’è neanche più la curiosità di sapere. Va completamente rivista la classe docente, e dirigente. Io ho quattro, cinque amici dirigenti in tutt’Italia; per il resto, sono persone che quando ci parli ti rispondono: mettiamo le carte a posto. L’importante per loro è avere le carte a posto.

È vero, almeno qualche volta, che “lo stupido istruito ha solo un campo più vasto per praticare la sua stupidità”?

Dalle mie parti sono tutti laureati e abbiamo visto quello che hanno combinato. È proprio vero.

silvia_valerio@libero.it

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