Artefatti. Lo spleen e le rose, la libertà a vent’anni è l’enigma della Morte a Giugno

di61A vent’anni, vent’anni fa, pareva opportuno darsi ad ascolti radicali, ad appartenenze d’ambito musicale che i saggi avrebbero continuato a definire “sottoculture giovanili”, in ciò prefigurando alienazione, disagio e panchine per drogati nei parchi. A vent’anni, vent’anni fa, il sottoscritto era troppo giovane per chiudersi volontariamente – gettando le chiavi – nella prigione in bianco e nero dei Joy Division, troppo vecchio per fare lo scemo con l’acid house allora imperante e troppo massimalista per cedere alle sfumature eteree dello shoegaze. La vera alternativa fu individuata nel cosiddetto Folk Noir, congrega misteriosissima per un giovane adepta, apparentemente un sottogenere del Gothic, più precisamente l’imprevedibile reazione contraria scaturita all’interno dei circuiti Industrial di matrice Throbbing Gristle. Dal punto di vista estetico si cominciò con l’abbandonare pizzi, merletti, capelli sparati e chincaglierie cimiteriali, tipici del prototipo fan dei Cure, per recuperare la mimetica che, dal servizio militare dell’anno prima, giaceva nel cassone in soffitta (poca fatica, visto che s’abitava in soffitta); sul bavero della giacca in pelle nera un totenkopf segnalava l’appartenenza settaria ai circuiti più oltranzisti: la morte aveva esaurito il suo fascino romantico e consolatorio, per diventare simbologia apologetica del male o forse solo trastullo per esteti annoiati. Finalmente subentrò la sobrietà formale tra nerovestiti fetish e pittati, il rigore di una scelta reazionaria, tutto l’effetto controverso del nichilismo e della libertà offerti dal punk.

All’inizio furono i Death in June, progetto capitanato da quel misantropo di Douglas Pearce, poi vennero Current 93, Sol Invictus, Coil, Non, Fire+Ice, Blood Axis, The Moon Lay Hidden Beneath a Cloud, Ain Soph e un’infinità d’altri, per lo più distribuiti dall’etichetta londinese World Serpent. L’ouroboros, il serpente alchemico, marchiava queste importazioni albioniche alimentando mistero e connessioni esoteriche. In epoca pre-web si recuperava il materiale con una telefonata a Demos, importatore napoletano di dischi assai rari, oppure ci si recava in treno a Milano: Ice Age e Supporti Fonografici, davanti alle colonne di San Lorenzo, erano tappe obbligatorie dove maneggiare a lungo i vinili prima della scelta. Rockerilla, Rumore e Blow Up, riviste della musica indipendente trattavano la scena “apocalittica” con recensioni ed approfondimenti, sicché c’era modo di restare aggiornati mensilmente, tant’è che lo scrivente ebbe l’opportunità di scialacquare interi stipendi in cambio di edizioni in vinile limitate, numerate, autografate; amenità ora oggetto di attenzioni morbose sulle aste online. An Ideal for Living, parafrasando i primissimi Joy Division: il claustrofobico rumore bianco dell’industrial deragliava verso cristalline e bucoliche espressività neopagane, la simbologia runica suppliva al duplice compito di rappresentare da un lato l’afflato mistico ed esoterico e dall’altro di farsi oltraggio – nazi – alle briglie sempre più severe della censura. Ci si sentiva parte di una setta, tollerata in ambito dark ma scambiata, fuori dal questi oscuri contesti, per una congrega di fascistoidi. Dove stava la verità? Vuoti estetismi nazi-chic alla Helmut Newton o proselitismo da blut und boden? Si trattava ancora di una provocazione libertaria, di matrice anarchica e punk, accostabile alle svastiche di Sex Pistols o Siouxie and the Banshees, o il segno era stato oltrepassato? All’epoca avremmo risposto: ma chi se ne fotte! Con l’eterna ambizione di far comunella dalla parte sbagliata. A prescindere.

La vicenda dei Death in June pare quella più adatta per fare sintesi di quel microcosmo occulto ed ambiguo, sia per le implicazioni esistenzialiste dell’autore che per ciò che di quella scena è rimasto: i Current 93 hanno privilegiato l’elemento hippy e sciamanico, i Sol Invictus il cabaret neoclassico, Boy Rice è probabilmente impazzito, mentre i Coil… i Coil sono effettivamente morti (dopo aver fatto in tempo a suonare in Italia, a Bologna e a Jesi, ospiti di Battiato, all’epoca direttore artistico del festival Il violino e la selce). Per il resto imitatori a profusione, spesso attardati nella sterile replica di simbologie totalitarie ad uso e consumo di un volontariato giovanile, più nichilista che fascista, cresciuto nella bambagia democratica. Douglas Pearce, il cantore mascherato della Morte in Giugno, rappresenta invece un caso emblematico di contraddizione difficilmente liquidabile con etichette sommarie. Omosessuale devoto a Dirk Bogarde (il protagonista de Il portiere di notte di Liliana Cavani), in gioventù estremista comunista con i Crisis poi cantore solitario dell’Europa distrutta e asservita all’americanismo, ispirato tanto da Mishima quanto da Genet, filo israeliano ma ossessionato dall’estetica nazionalsocialista – con preferenza per le S.A. di Rohm – pare rappresentare a tutt’oggi un enigma vivente: spleen e mimetiche, rose e pugnali, poesia e violenza, introspezione e teatralità, vulnerabilità e discriminazione, maschera e volto.

Caso strano, quello dei Death in June; da un lato ospitati, seppur con qualche diffidenza, dai centri sociali anarchici per l’appartenenza alternativa ai circuiti “off”, dall’altro biasimati ed ostracizzati dai medesimi per l’ostentazione di una simbologia incongruente e “inopportuna”, d’altronde impossibilitati a suonare altrove vista la palese indifferenza di tutti gli altri palinsesti. In sintesi: troppo fascisti per i compagni, troppo compagni per i fascisti, troppo difficili per i restanti. Trattative estenuanti, come a Torino nel 1997, accondiscendenze come al TPO di Bologna nel 1999, prima delle ultime tristissime esibizione italiane al passaggio del secolo, assolutamente trascurabili, ne hanno reso da sempre travagliata l’esperienza concertistica. Una spartana scenografia, fatta di neri vessilli, si dischiude in favore di una doppia rappresentazione: marziale e rumoristica da principio, intima e cantautorale in seguito. Certo è che titoli quali The guilty have no pride (NER, 1983), Nada! (NER,1885) The world that summer (NER, 1986), But, what ends when the symbols shatter? (NER, 1992) Rose cloud of holocaust (NER, 1994) e Take care & control (NER, 1998) mantengono tutto il loro tormentato fascino anche dopo anni. Dischi saturi di criptiche allegorie e di esistenzialismi declinati in masochismo, quasi a voler fare manifesto di una cattiva coscienza, camuffata dalla società borghese nella divisione strumentale di bene e male. Tra ballate acustiche e catacombali inni da bunker, si consuma la vicenda dell’uomo solo contro il mondo moderno, il donchisciottesco delirio di un aedo perverso, in grado di tramutare con liriche profonde e simboliche i sogni in incubi. In fondo, come cantava Duoglas P. molto tempo fa: Où est Klaus Barbie? Il est dans le coeur, il est dans le coeur noir. Liberté c’est un rêve…

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Donato Novellini

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