Musica. Janis Joplin: arriva il film che celebra la Didone impazzita del blues

JANISTorrenti di Southern Comfort scorrono all’interno di un bosco, si leva una creatura affamata di vita che corre in compagnia dei lupi, ricavandone stima, ma quasi mai amore. Asfissiata dalla texana Port Arthur, Janis Joplin smuove rumorosamente la polvere di bigotti focolari, costruiti sulle fondamenta pericolanti di un puritano ammonimento. Una cittadina che nella pratica costante dell’ isolamento e del biasimo, le rimarrà incollata addosso, come un improbabile cappotto in un giorno di canicola.

L’inquietudine, la voracità e uno spirito libero che, con il tempo si farà prigione, affrettano una giovane Janis, alla volta di presunte oasi californiane dove tutto può accadere. E accade che una donna bianca, generi una voce nera, alla maniera di quel blues messaggero dell’amore disperato. Melodie lancinanti che tra uso di eroina, orge alcoliche e abbuffate sessuali, fanno di Janis Joplin una delle più importanti voci femminili della sua generazione. In uscita giovedì 8 ottobre nelle sale italiane, il film documentario, fuori concorso a Venezia di Amy Berger, “Janis”.

Un angelo delle tenebre discesa nell’oscurità, volteggiando con i diavoli, prende voracemente a morsi una vita che la inghiotte in una sola definitiva azzannata. L’istinto di fuga generato dalla fame d’amore, si trasformerà nella perla del Texas, in istinto di morte. Quell’affannoso cavalcare l’abisso per tramite sessuale, rinasce in un vuoto sempre più grande. Una voragine impossibile da arginare, diviene elemento primordiale in una voce che squarcia per profondità e tormento. Il blues che deflagra dalle sue corde è fatalmente femmina: felino e fragile.

Cresciuta a suon di Pablo Casals, tra le braccia di un padre visceralmente pessimista, Janis trascina nella musica un mal d’amore che affoga nell’inferno della droga e dell’alcol. Ma il suo grido lacerante, oltrepassa, seppur per pochi anni, il vortice degli stupefacenti. Una primitiva urgenza di affetto, la consegna a banchetti sessuali che mai si faranno carezza per il cuore. Lo sballo e i viaggi deliranti nella testa, rappresentano solo delle sospensioni momentanee da un dolore che non smette di urlare. L’eterna sensazione di non essere creatura meritevole di successo e affetti, presenta una gabbia da lei stessa disegnata.

La potenza di una voce prodigiosa, la sottrae dall’ala incombente della morte sino all’età di ventisette anni. Quella di Janis Joplin è disperazione in note, ogni palco dove si esibisce, figura come un balcone infuocato che può crollare nel vuoto in qualsiasi momento. Nello spettacolo, con tutta la passione di una donna selvaggia, fa l’amore con il suo pubblico, si dimena e rinasce in piacere. Lei stessa assocerà l’esibizione all’atto amoroso: ”è come provare un centinaio di orgasmi con qualcuno che si ama”. Un piacere che “Pearl”, la perla di Port Arthur, non trattiene egoisticamente, ma restituisce con generose estensioni vocali a coloro che sono in grado si sentirla.

Mostrarsi al mondo completamente nuda, cantare il carico di un martirio, facendo di ogni canzone il lamento di una Didone impazzita. Una creatura dilaniata che solo nelle acrobazie vocali di ballate come “Piece of my heart”, ”Kozmic blues” e la ninna nanna di Gershwin “Summertime”, riesce a ricongiungersi con il mondo. Indimenticabile la sua esibizione a Monterey nel 1967 dove in una accalorata “Ball and chain”, evoca la pena amorosa in un delirio blues, incatenando gli spettatori all’immagine di un’araba fenice che risorge dalle ceneri.

Se la voce di Tom Waits è “ruggine e miele”, quella di Janis è bourbon e zenzero. Il wiskey delle radici geografiche e la pianta che guarda all’oriente delle sue perline colorate. Impulsiva, appassionata e generosa, lascia all’autodistruzione le redini della sua vita e a un pubblico che attraversa diverse generazioni, la discesa nella profondità del suo sconforto, in meravigliosi lamenti di Didone. Janis Joplin muore nel 1970, all’età di ventisette anni in una stanza del Landmark Motor Hotel di Hollywood. Pochi mesi dopo la sua morte viene pubblicato l’album “Pearl”, la rivista “New York” lo inserisce al primo posto tra i dieci migliori album femminili della storia.

“Janis Joplin, ha espresso piuttosto bene un aspetto del 1968: la simultaneità di contemplazione e autodistruzione, spingendo il suo gemito fino ai limiti dell’Universo.” Copertina del Time, diciotto anni dopo la sua morte.

Aspettando il film documentario “Janis”.

@barbadilloit

@isabellacesarin

 

 

 

Isabella Cesarini

Isabella Cesarini su Barbadillo.it

Exit mobile version