Reportage. Un laboratorio di accoglienza differente tra le montagne della Carnia

da lightbox.time.com
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La strada era già stata lunga per Mohamed (quindici anni, somalo), per Anissa (sedici anni, originaria del Togo), per Abidullah (dodici anni, afghano). Dal mare all’Italia e poi al Friuli, così ai margini da farsi dimenticare. Udine. Tolmezzo e non è ancora finita, su per la valle del But fin sotto al monte Tenchia, cantato da Carducci come ritrovo di streghe. Stop. Riposo.

E’ qui che Mohamed, Anissa, Abidullah potranno fermarsi per il tempo che la legge italiana prevede.

L’eccezione del Bosco di Museis

Il Bosco di Museis

Sul cartello di legno all’ingresso è incisa la scritta “Bosco di Museis”. Siamo in un’abetaia secolare che dà le spalle al paese di Cercivento e con lui al mondo mondano e non confina più che con le danze delle streghe. Una piccola San Marino, capace di autosostentarsi in tutto. Potrebbe chiedere la secessione e avrebbe solo da guadagnarci. Tanto, la comunità di Museis è completamente autonoma a livello energetico, grazie ai pannelli fotovoltaici, a una pala eolica e a una turbina idroelettrica. Ai rifiuti provvede da sé, riciclandoli e riutilizzandoli. Ci sono bestie da cortile per la carne, le uova, vacche per il latte, le api, quindi miele, polline, pappa reale, propoli, un frutteto di mele che maturano da agosto a ottobre, una serra di pomodori dolci da far invidia alla costiera amalfitana. I pomodori e il resto li coltiva Bepi di Arta Terme, volontario. Anche alle bestie bada lui. A Museis sta bene e questo è il suo stipendio, tredicesima e quattordicesima, invece di starsene le mezze giornate a mugugnare davanti a quei rossi e a quei bianchi che rovinano tanti friulani forti come muli. A Museis ci sta bene e non solo lui. Adesso ci staranno bene anche Mohamed, Anissa, Abidullah. Ma pure Willer, Loris, Vito.

L’impegno di Renato Garibaldi

Una foto dall’alto della comunità di Garibaldi

Renato Garibaldi, il deus ex machina di quest’Italia diversa, apicoltore virgiliano, si è accorto da tempo che la nonna Emma di Treppo Carnico, profuga istriana, aveva ragione: l’ozio è il padre dei vizi e si sta smangiando le migliori virtù degli italiani. Così, al contrario, il lavoro alla furlana, il lavoro robusto e sano e schietto, scandito dalle necessità della natura, può guarire la depressione, temperare la follia, vincere le dipendenze, contenere i problemi legati all’esodo dei migranti. Dà a Willer, a Loris, malati di schizofrenia, a Vito, ludopatico, a Giulio, ex tossicodipendente, la possibilità di diventare anche loro parte di quell’organismo vivo di classica memoria che è lo stato. E non come forfora o verruche, abbandonati su una panchina a sputare contro i passanti. Come falangi, come polpastrelli. E anche a Mohamed, ad Anissa, ad Abidullah – per il tempo che durerà la loro vacanza in Italia.

Un po’ di storia. Il “Bosco di Museis” nasce più di trent’anni fa. Agli inizi del ’90 ci sono le prime accoglienze in borsa lavoro di persone inviate dal SerT o dal Centro di Salute Mentale. Dal settembre 2011, è fattoria sociale. Garibaldi è stato tra i primi a credere nelle potenzialità terapeutiche dell’agricoltura, che per la semplicità di certe mansioni può essere praticata anche da persone con forti disagi. Possibilità terapeutica che è subito anche politica. Ci sono, infatti, vantaggi per tutti: per le famiglie delle persone disagiate, che hanno modo di far guadagnare qualcosa al loro congiunto; per lo stato, che risparmia le spese sanitarie; per le aziende agricole stesse, che hanno a disposizione manodopera gratuita. E in Friuli ci sono 23.000 aziende agricole. 12.000 solo nella provincia di Udine.

Una agrocomunità per minori d’Italia o stranieri

Dopo un lunghissimo iter burocratico (dall’aprile 2014 al gennaio 2015), Museis è diventato la prima (e al momento unica) agricomunità per minori d’Italia. I ragazzi, sia italiani affidati dalle famiglie o dai servizi sociali, sia stranieri, dedicano la mattina allo studio e il pomeriggio alla collaborazione. Guai se lo si chiamasse lavoro: arriverebbero subito i sindacati, pioverebbero anatemi. Perché oggi è il lavoro a essere stigmatizzato, non l’ozio.

Da anni, la sala conferenze di Museis, con finestroni enormi aperti sul bosco, ospita una rassegna culturale tra le più seguite del Friuli, senza mai avere un contributo uno da parte dei professionisti della politica, impegnati piuttosto a versare quindicimila euro alla compagnia teatrale foresta, che allestisce lo spettacolo sulle ‘portatrici’ carniche rubando il posto a quella locale, contentissima di spartirsi un rimborso spese di mille euro. E intanto il Friuli è dimenticato appena oltre il Piave e l’unica consolazione è poterci trovare distese di mirtilli selvatici che nessuno raccoglie e marmotte così sicure di essere sole che ti fischiano negli orecchi.

Ma Museis non è solo parole e colore. Tutti i colori che lo attraversano trovano una loro armonia solo grazie al principio gerarchico su cui si fonda. Mohamed potrebbe diventare un pericolo per l’Italia. Non ha niente da perdere. Potrebbe rubare, violare, saccheggiare, come fanno i barbari. Invece no. Al mattino la scuola. Nel pomeriggio il lavoro. Renato Garibaldi si tira fuori di tasca, dai guadagni della vendita del miele, i due euro più due euro al giorno che permetteranno a Mohamed di non finire su una panchina a pensare a quale scorciatoia prendere per pigliarsi qualche soldo, il giorno in cui l’Italia lo metterà in strada senza niente. Una mina destinata a esplodere, voglia o non voglia.

Potrebbero sfregiare il Bosco di Museis, questi ragazzi che hanno visto di tutto. Invece no. Perché a Museis c’è un capo che si comporta da capo. Che si prende tutte le sue responsabilità e per questo sa coniugare efficacemente il verbo volere e può punire chi sgarra. Un capo che non si crogiola nei propri privilegi, ma corre dalla mattina alla sera, ora a Malga Plotta, a raccogliere il miele di rododendro, ora fino al goriziano, perché è passato un orso-migrante in marcia verso la Slovenia e si è preso due arnie. E gira a destra e a manca su una vecchia Punto grigia. Come fai a provare per lui il risentimento sanguinario del barbaro?

Il cuore di Museis è il momento del pranzo, quando Renato Garibaldi, i suoi ospiti e i suoi collaboratori mangiano insieme, in quaranta circa che sono, nello stanzone del magazzino. Mangiano tutti le stesse cose, Renato, i suoi quattro figli, il suo staff, i suoi visitatori occasionali, i suoi connazionali accidentati, i suoi ragazzi dei quattro angoli del mondo. Prima, c’è il momento del “Padre nostro” e non deve volare una mosca. E alla fine Mohamed passa i piatti e Willer li insapona. Ogni tanto a Willer scappa qualche bestemmia: sono i nervi che non tengono. Eppure a Museis non succedono le mille tragedie che ingorgano i giornali, perché è protetto dalla fortuna dei forti. E’ Renato Garibaldi, ancora, a disinnescare la mina della barbarie ospitando i ragazzi stranieri che la legge gli imporrebbe di abbandonare in strada al compimento del diciottesimo anno in due sue case personali, una a Treppo e l’altra ad Arta. L’Italia non ha, infatti, un progetto per gestire questo tempo di transizione. Ha solo un’incongruenza. I ragazzi hanno il diritto di stare in Italia ancora un anno per cercarsi un impiego, ma così si scavalca la legge Bossi-Fini, che impone di accogliere solo chi ha già un contratto di lavoro.

La richiesta di regole chiare sull’immigrazione

Intanto, Garibaldi cerca di costruire un suo progetto e gira per le scuole della Carnia per trovare dirigenti disposti a ragionare con lui. Si tratterebbe di individuare i settori carenti della nostra occupazione (quello delle badanti, dei lavori agricoli, dell’edilizia) e insegnare ai ragazzi stranieri un mestiere (e la lingua italiana e l’educazione civica). “Cosa ci vuole – dice – per affrontare qualcosa che non è più emergenza dal 2011?” La questione sarebbe da risolvere soprattutto a livello burocratico, come si è fatto con la mafia. Occorrerebbe stabilire regole chiare e applicarle. Ribadire il primato del merito, visto che, ora, se rubi e sei minorenne, questo non incide sul tuo permesso di soggiorno. E far sapere a tutti i non aventi diritto, agli stranieri che vengono da territori non in guerra, che qui non ci possono stare.

Da lettori di Jean Raspail chiederemmo di più, molto di più, ai nostri connazionali. Ma quest’Italia che ha perso ogni energia, quindi ogni volontà, che non sa più chi è e dove andare, si è così allontanata dall’ideale che un po’ di energico pragmatismo sembra già un miracolo. Altrimenti, se si continuerà a vagolare senza timone (o a ritrarsi per orrore), assediati in ogni angolo da gente che si porta addosso ragioni di vita tutte diverse (o chiusi in un’ignavia acida), la Venere di Botticelli si ritroverà presto addosso le mutande che il pudore islamico invoca e noi, o forse i nostri figli, o i figli dei nostri figli, penseremo, masticando kebab, che, in fondo, il nuovo look non sarà poi così male. Persi tra l’incalzare della truffa gender e i cappotti in ecopelliccia per cani. Tra un vicino di casa ivoriano e un negozio cinese.  L’inno di Mameli che parte dal telefonino di Renato Garibaldi sembra improvvisamente lontanissimo.

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Silvia Valerio

Silvia Valerio su Barbadillo.it

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