Cultura. L’Oriana secondo Buttafuoco: “Resta solo l’autunno d’odio della Fallaci”

fallaciÈ più da brandire che da leggere “Le radici dell’odio”. È un libro dal marchio solido, nientemeno che Oriana Fallaci, e prende corpo più negli umoni dell’opinione pubblica che nella riflessione della coscienza critica. La sostanza è presto detta: dietro il terrorismo c’è l’islam e la religione dei musulmani è quella dei tagliagola il cui cavallo di Troia, per aprirsi le porte in Occidente, è l’immigrazione. Il comizio è tutto qua e quel bambino morto portato dalla risacca, allora – l’immagine che, da qualche giorno, ci devasta nel fondo del cuore – non è un bimbo. È il legno equestro nel cui capiente ventre si nasconde l’esercito degli Ulisse armati di scimitarra per prendersi il mondo di libertà da noi creato. Il canovaccio è presto pronto. Perfetto per berciare in un talk show.

Le ragioni, dunque, ancora prima dell’odio. “Quando tocchi con dito, il distacco è impossibile” scrive Oriana Fallaci impegnata a raccontare un’ampia fascia della crosta terrestre dove “non esistono zitelle nè matrimoni d’amore” e dove gli uomini che si regalano in godimento ad altri uomini vengono ammazzati.

Non è il Sud Italia dagli anni ’50. È il Medio Oriente dei ’70. Lo Scià di Persia, restituito al suo trono, arriva a palazzo in macchina ma con l’auto portata a spalla dal popolo. Lei dice a lui di “essere nel libro nero dell’Iran” per via delle sue corrispondenze dal Vietnam ostili agli Usa e lui, cortesissimo la spaventa: “La faccio mettere nel libro bianco”.

La (grande) corrispondente che fu 

Formidabile cacciatrice di dettagli, Oriana Fallaci affronta Cassius Clay, ovvero, Mohammad Alì e questo ommone dell’islam negro col pugno chiuso dei comunisti (“le dita non servono mica”) rutta ruminando un cocomero e senza neppure salutarla le offre un’inaspettata civetterie: “Ho la faccia liscia come una signorina, mi merito tre donne per notte”.

Potrebbe anche esaudire un interesse questo libro ma è stato costruito nella forma di un comizio scritto,, mescolando reportage che hanno fatto la storia del giornalismo a pagine di un autunno, quello di un mito qual è la Fallaci, definitivamente spentosi nell’ossessione anti-islam. “Può il codice penale”, chiede a se stessa, “processare per odio?”. S’inebria a tal punto d’odio, la giornalista che insegnò la pietà con Lettera a un bambino mai nato, da farne un blasone per la nuova Crociata. Imam Khomeini, pur tra i tramestii di una conversazione aspra, le sorride. E le dice: “Scriva il contrario, se vuole. La penna ce l’ha in mano lei”.

L’odio c’è, dunque. Non c’è l’islam. C’è l’esotismo, la politica e il mestiere dell’inviato con il quale Oriana Fallaci costruisce epiche più che articoli, ma una sola pagina di cronaca che confermi l’ultima parte del volume – i testi delle conferenze presso i circoli neocon o gli articoli di recente polemica anti islamica  non c’è. “Il modo in cui si è trattati”, scrive, “spegne ogni pietà”. George Habash, il capo del Fronte popolare arabo, autore di stragi efferate, dirottamenti e attentati contro gli ebrei anche in Europa (a Monaco, nel 1972) è cristiano e comunista e il lettore – se mai se ne troverà uno tra quelli che i libri li brandiscono invece che leggerli – viene a saperlo grazie alla Fallaci. La precisa domanda rivolta a Rashida, responsabile di una strage in un supermercato di Tel Aviv – “credi in Dio?” nella risposta è già una smentita al progetto editoriale. “No, non direi” dice Rashida. I fallacisti che vanno in automatico non saprebbero reggere di fronte a certi colpi di scena. La terrorista non sa cosa sia il Corano, crede piuttosto in Marx, il Lenin e anche in Mao Tze Tung e la ragazza accanto a lei – elegante e sempre a proprio agio nelle diverse mise da radical chic del Medio Oriente – nella prosa della Fallaci si rivela tra “i ricchi comunisti à la page”, non certo adatta alle madrasse.

Il cortocircuito del libro da brandire e non da leggere

Le sragioni, dunque, ancor più che le “radici”. Sono quelle di questo libro che nel sottotitolo – La mia verità sull’Islam – in luogo di una gaffe infelice dell’editore svela un lapsus più che volontario del mercato cui è destinato.

“La mia verità”, infatti, sta a mezzo tra la Pravda sovietica e il Mein Kampf hitleriano e tutte le ragioni di una protagonista straordinaria qual è Oriana Fallacci – i magnifici reportage degli anni ’70, ma anche le invettive, un genere più che nobile – in una confezione così congegnata, a uso dei galoppini, vanno a parare in una sola destinazione: la bieca bottega politicante.

L’odio resta, si ravviva. “Occhio-per-occhio-dente-per-dente è epitome di ogni orgoglio”. Così scrive la Fallaci ed è vero. Si scrive una frase, si prende una posizione, e magari non si considera che l’inchiostro va ad attingere da un calamo in cui si fa oblio di un intero villaggio distrutto, del sangue versato a seguito di un interrogatorio dove il prigioniero ne esce fuori mutilato – scene spaventose patite dagli arabi in fuga – e senza guadagnarsi la nostra pietà. Ma (e lo scrive lei non Bin Laden) “l’ignoranza sulla Palestina non è ammessa, non è la lontana Amazzonia”. L’odio, a suo modo, digerisce ma rutta. Fallaci, a suo modo, dichiarandosi atea si proclama cristiana.

Le pagine forse più penose sono quelle dedicate alla sua Firenze. La cristianissima città che fu faro d’incontri con Giorgio La Pira e baluardo spirituale con Attilio Mordini, degradata alla retorica pazzotica dei senegalesi che pisciano sul Battistero.

Fate un esperimento. Fate leggere i pezzi in cui si racconta la Palestina omettendo però l’autrice. Fate ascoltare i racconti dei campi profughi senza svelare la titolare del taccuino – telefonante a un convinto occidentalista, dichiaratamente fallaciano – ebbene, io ho chiamato una signora, un’aspirante parlamentare, le ho letto per intero pagina 55 (palestinesi definiti “i nuovi ebrei della terra”) e poi pagina 73 (palestinesi che rischiano di diventare come “gli Apache relegati nei musei”) e la signora mi ha sciorinato addosso tutti gli insulti tipici della retorica destrorsa. Alla domanda “Chi è l’autore” – ha risposto (giuro): “Giulietto Chiesa!”. Fatelo tutti questo esperimento: tanto non leggono, brandiscono.

 

*Da “Il Fatto Quotidiano”

 

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