Artefatti. Pyongyang mon amour: dentro la provocazione (jungheriana) dei Laibach

laibach3

L’evento ha fatto clamore, anche sulla stampa poco avvezza a trattare argomenti underground. Per la prima volta nella storia un gruppo musicale straniero ha varcato il confine nord coreano, per esibirsi in concerto a Pyongyang. La notizia potrebbe apparentemente rientrare nel novero delle forme d’autocompiacimento tipiche delle società occidentali, eventualmente sotto la voce “esportazione della libertà”. Tuttavia, giusto per rimarcare le distanze dalle esilaranti performance turistiche intraprese recentemente da Antonio Razzi e Matteo Salvini, l’esperienza in questione esula dalle stereotipate casistiche filantropiche ed interculturali, fino ad ora catalogabili come timorosi tentativi di allargamento del “mercato” verso zone del mondo vergini ed inespugnabili. Ciò che rende interessante la vicenda risiede principalmente nel soggetto protagonista, ovvero la band slava Laibach. Elemento musicale collaterale del progetto artistico multidisciplinare NSK (Neue Slowenische Kunst), laibach – che riprende il nome tedesco della città di Lubiana – rappresenta tutt’oggi, dopo 35 anni di attività, un caso a parte nei circuiti di musica alternativa, particolarmente del genere industriale. Assimilabile per certi versi ad altre band provocatorie quali Throbbing Gristle, Death in June, A.C.T.U.S., NON, Der Blutharsch, o gli italiani Disciplinatha, il collettivo sloveno tuttavia continua a distinguersi per il rigore quasi dogmatico che ne permea l’operato, sia dal punto di vista estetico ed artistico che concettuale.

Fautori di una musica marziale – miscellanea di metallici effetti ripetitivi, cori panslavi o volkisch e parodie rock – e di una presenza scenica ai limiti del kitsch, i Laibach utilizzano come elemento peculiare il codice comunicativo totalitario, declinato secondo diverse sfumature estetiche ma comunque facilmente riconducibile ad un mix di comunismo, fascismo e nazionalsocialismo, adattato in modo subliminale al contesto contemporaneo liberal-capitalista: d’altronde la pubblicità non è forse discendente diretta della propaganda? Goebbels, probabilmente, lavorerebbe oggi in un ufficio di Nuova York. Qualcosa di simile, ovvero l’ostentazione di stilemi espressivi rimossi dal quieto vivere democratico, è stato sperimentato con successo anche qui da noi grazie alle acute grafiche di Dinamo Innesco Rivoluzione, principalmente per conto dei già citati Disciplinatha. L’elemento ideologico e propagandistico, principalmente collegato alla subordinazione del singolo all’organizzazione statale o etnica e alla mistica del lavoro, ha portato il gruppo a rielaborare formule creative tipiche dell’autoritarismo e dello speculare consenso delle masse, in qualche modo riconducibili a quanto, nel 1932, Ernst Junger preconizzava ne L’operaio. Dominio e forma. Dalla creazione di uno Stato immaginario nazionalista filo-serbo – similmente a quanto accaduto a Pordenone con la creazione di Naon ad opera degli anarchici del Great Complotto, ma simulando disciplina in luogo di sovversione – all’utilizzo ambiguo di elementi iconografici della massificazione – ad esempio la croce suprematista disegnata da Malevic, logo del gruppo – il culto disumanizzante di Laibach si trasforma nel tempo pur rimanendo immutabile, rafforzato anche grazie ai rifacimenti in chiave belligerante di alcuni famosi successi pop (Queen, Beatles, Rolling Stone, Europe, ad esempio). Tutti elementi che fanno del combo slavo un soggetto particolarmente destabilizzante per i subdoli desiderata del Nuovo Ordine Mondiale e per la gioventù contemporanea lobotomizzata dai media.

[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=-E72v6G9JHY[/youtube]

Ecco quindi che il concerto nord-coreano, lungi dal rappresentare un segno di alienazione o di nichilismo da esportazione, si pone nell’ottica di creare strategie “dissidenti” proprio partendo dall’ortodossia e dal rigore comportamentale “a libertà vigilata” di Pyongyang. La capitale infatti, con le sue strade pulite ed i ritmi di vita meccanici, ripetitivi ed in fondo rassicuranti, con le parate militari e l’arte di regime quasi naif, diventa nel gioco orwelliano dei Laibach, pretesto per ribaltare la verità. O meglio: spunto per vincolare la verità a logiche di propaganda alternative rispetto a quelle marcate U.S.A.. Anche Kim Jong-Un, con il suo buffo aspetto da punk appena uscito (o ancora rinchiuso?) dal collegio, si fa elemento per interessanti analisi se estrapolato dal suo contesto d’appartenenza. Nel fagocitante sistema capitalista, imperante nel resto del mondo, il dittatore coreano assume connotati di moderno simulacro da “società dello spettacolo”, surreale ed in fondo poco credibile icona pop della malvagità. Chiaro che per i Laibach questo è terreno fertile, teatro perfetto ove allestire la macchina dell’ambiguità sistematica e della identificazione ideologica, proprio grazie all’iperbole retorica del consenso. Sarà utile riportare in chiusura un passaggio estratto da una lor vecchia intervista: “L’ideologia dei surplus è sorpassata e non deve accadere di nuovo che uno spettatore-consumatore scambi un pacco per un’opera d’arte. Arte e totalitarismo non si escludono a vicenda, i regimi totalitari aboliscono l’illusione di una libertà artistica rivoluzionaria individuale, il bisogno di autorità è più forte della volontà d’indipendenza, il lavoro di Laibach non è critico né di protesta… Laibach è un culto estremamente deumanizzato della mancanza d’espressione. La posizione di Laibach nei confronti dell’arte tradizionale è di una selezione che deve riscoprire la storia, restituire il potere alle istituzioni e alla convenzione, diminuire le distanze fra espressione artistica e consenso collettivo.”

@barbadilloit

Donato Novellini

Donato Novellini su Barbadillo.it

Exit mobile version