Libri. “Sulle scogliere di marmo” di Jünger, l’epica del “noi” nella voglia di ricominciare

Ernst Junger

jungerUno scontro finale. L’ascolto delle voci funeste del nemico. E il nemico è forte. Il suo esercito di tagliagola va all’assalto, non si ferma tra la pianura e le scogliere. Non è un film. È la grande metafora di Ernst Jünger del romanzo “Sulle scogliere di marmo” (1939). In questi mesi, abbiamo riletto o “Le tempeste d’acciaio”(1920), il romanzo della Prima guerra mondiale che è stato collegato al centenario del conflitto. O siamo stati sedotti dalla recente pubblicazione “San Pietro”(1957), il ‘diario sardo’ con cui lo scrittore contempla un Mediterraneo sacro e primigenio. Con questo impegno critico, però, non abbiamo più aggiornato un’opera jüngeriana dal gusto epico, ossia, un’altra volta, non siamo entrati nel disegno allegorico del romanzo “Sulle scogliere di marmo.”

In questo romanzo, una terra pacifica è devastata dalle soldatesche del malefico Forestaro. Le sue truppe sono impetuose. Intanto il popolo della scogliera è smarrito e tiene “consiglio di guerra anche prima di una battaglia perduta” e tiene pronte le spade per l’ultima battaglia. Ma il popolo che pare sconfitto non è  condannato dal destino. I popoli imparano molto dalle sconfitte. I suoi guerrieri diventano dei modelli. Modelli sofferenti… Nelle interpretazioni dei classici letterari, i guerrieri battuti che resistono, ora dopo ora, in fondo siamo noi.

In questo senso l’opera “Sulle scogliere di marmo” ritorna al lettore come epica. La consapevolezza della rovina, le minacce storiche che devastano la comunità, le civiltà che scompaiono: questi i motivi dell’epica jüngeriana. “Vi sono epoche di decadenza (…) che si vanno disfacendo; e se siamo impigliati in tale epoca, anche noi barcolliamo qua e là…” E il trovarsi sul precipizio è peculiarità di questo romanzo. Le case bruciano. I traditori sorridono. Le truppe avverse devastano ma la narrazione finisce poi in una corsa valorosa che salva il popolo tra “un mare di fiamme.” Con ciò lo scrittore tedesco disegna il riscatto finale. E la sua poesia è eroica. Dovrebbe essere inserita nei manuali di epica dopo i racconti in versi delle gesta dei guerrieri franchi o dei cavalieri di Britannia. Con una nuova tensione interpretativa,  “Sulle scogliere di marmo” rappresenta un testo di epica contemporanea, cioè il romanzo della dignitas, della vittoria insperata, e del ritorno alla “pace della casa paterna.” Jünger così è omerico. Il Forestaro è crudele come il Ciclope. La nebbia e le ombre del romanzo spingono a pensare ad un Ade medievale. Come nell’Odissea, poi le cose non reali diventano vere, tanto che un “cerchio di serpenti” si scaglia contro l’esercito selvaggio del Forestaro.

Il problema critico è sempre lo stesso: tentare il ritorno ad una ‘mistica della letteratura’, chiedere slanci ideali alle pagine scritte, ritrovare così il discorso sul destino dell’uomo. Appunto per questo, rileggere “Sulle scogliere di marmo” significa voler assegnare alla letteratura un’identità premonitrice; proprio perché “la parola è regina e maga ad un tempo”, come dice la voce plurale del romanzo. Ed ecco la centralità tematica: la narrazione di Jünger è un noi. La voce dello scrittore è plurale. Essa alimenta una necessità critica pressante: il voler riscoprire modelli di un noi narrante. Per andare lontano dalla dimensione individuale del romanzo. Per scrivere di noi che “…cadiamo allora da torbide gioie in torbidi dolori; e la coscienza del nostro disperdimento, la quale è pur sempre vivace in noi, ci fa sembrare più allettevoli passato e avvenire…”

Aver resistito mentre gli invasori devastavano. Aver atteso. Esser poi tornati alla casa paterna distrutta per ricostruirla. Questo rileggiamo in un libro che chiede agli uomini di restare uniti. Uniti contro bottegai e squartatori. Un romanzo questo che si sottrae all’individualismo e alla fine avverte di riedificare la casa della comunità ripartendo, inevitabilmente, dalle rovine,“Non una casa viene costruita, non un’architettura progettata, ove la ruina non sia implicita, posta quale pietra di fondamento…”

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Renato de Robertis

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