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Cardini/11. Ballario: “L’immigrazione? Tanto business e pochi veri rifugiati”

by
19 Agosto 2015
in Cultura, Politica
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Immigrati a Lampedusa
Immigrati a Lampedusa

E’ opportuno che gli scandali vengano a galla, dicevano gli antichi. E anche i problemi: meglio affrontarli di petto piuttosto che ignorarli, sottovalutarli o far finta che non esistano. Perciò è quanto mai opportuno che Franco Cardini, proprio dalle colonne di Barbadillo, abbia sollevato il problema di una destra, lato sensu, incapace di affrontare il tema enorme dell’immigrazione senza ricorrere a facili slogan elettorali e scorciatoie xenofobe.

Che l’argomento non sia liquidabile con proposte facilone o tentazioni ruspaiole è evidente a chiunque, anche agli stessi personaggi – Salvini in primis – che grazie a queste sparate, e alle poche ma chiare idee sul fenomeno, stanno mettendo da parte un discreto gruzzolo di consensi. Tuttavia la virulenza con la quale Cardini liquida il “partito” di chi alza la voce contro l’immigrazione “selvaggia” – si abbia il coraggio di usare questo aggettivo, perché tale è – è apparsa eccessiva. Così come la difesa a priori non tanto del Pontefice, quanto della Chiesa italiana.

Il ruolo della Chiesa e di Bergoglio

bergoglio_fotoAdoniaIl Papa fa il suo mestiere e lo fa piuttosto bene, così come i suoi predecessori che hanno garantito due millenni di vita all’istituzione che rappresentano. Francamente sorprenderebbe di più udire dalla bocca di papa Francesco frasi “alla Salvini”, piuttosto che argomentazioni universali tratte dal Vangelo: che un Pontefice invochi l’accoglienza per popolazioni in fuga dalle guerre, per i poveri, per i diseredati è tutt’altro che rivoluzionario e perfettamente in linea con la millenaria dottrina della Chiesa. E tanto meno suona come una svolta “comunista” del papa argentino, con buona pace di certi cattolici bigotti e tradizionalisti che a quanto pare sognano la santa inquisizione e il Papa Re. Bergoglio può piacere o no, ma finora ha dimostrato di saper volare alto (vedi enciclica “Laudato sii”), di proporre ricette universali per temi universali. E soprattutto di non dare troppa importanza alle beghe interne del Paese che lo ospita, al di là delle mura vaticane.

Lo schieramento di alcuni vescovi

Diverso è il discorso sul ruolo giocato dalla Chiesa italiana, dalla Cei, dai “vescovoni” (come li chiamava Bossi). E mettiamoci pure il ruolo dell’industria dell’accoglienza, in buona parte nelle salde mani di cooperative e associazioni cattoliche. Sono queste le note dolenti giustamente denunciate dalla Lega di Salvini ma anche da FdI di Giorgia Meloni. Se parla dei profughi di Lampedusa il Papa vola alto e offre un approccio al problema che può piacere o meno, ma è squisitamente spirituale e riguarda l’intera umanità. Se invece a starnazzare come un ospite dei peggiori talk show è monsignor Galantino, rappresentante della Cei e dunque azionista dell’industria dell’accoglienza, oltreché fiancheggiatore della politica insensata (per taluni coscientemente criminale) del “facciamoli entrare tutti”, allora la musica cambia. E Salvini e Meloni hanno non solo il diritto, ma il dovere politico di metterlo a tacere e di denunciare la follia del fronte progressista (in altri tempi si sarebbe detto cattocomunista) che da anni sta ormai battendo la grancassa di un’accoglienza pelosa.

Pelosa non solo perché sbagliata nei suoi fondamenti geopolitici, sociali ed economici, ma soprattutto perché è ormai evidente che l’immigrazione clandestina (anche in questo caso, chiamiamo le cose con il loro nome) è diventato un gigantesco business gestito da enti parapolitici e finanziatori dei partiti; oltreché un tema buono per far breccia nelle menti semplici dei perbenisti dal cuore tenero e per sviare le preoccupazioni della gente da argomenti più scivolosi: crisi economica, disoccupazione, tasse insostenibili, dittatura dell’Unione europea, perdita della sovranità nazionale.

Gli slogan non bastano

Franco Cardini ha ragione a criticare le scorciatoie sloganiste adottate dai partiti di destra – sempre lato sensu – e l’appiattimento sulle tesi ruspaiole da parte degli intellettuali d’area. Infatti il primo lavoro da fare sarebbe di tipo culturale. Per fornire ai politici, ma anche alla gente comune – che è in grande maggioranza perplessa sullo storytelling che viene ogni giorno propinato da giornali e televisioni circa le magnifiche sorti e progressive di un’Italia invasa da milioni di africani e asiatici – strumenti concreti per smascherare l’impostura. E per fornire munizioni culturali a una maggioranza silenziosa bersagliata da un’offensiva mediatica senza precedenti, una maggioranza silenziosa e silente incapace finora di andare al di là del mugugno, dello slogan xenofobo, della tentazione razzista.

La distinzione immigrato/rifugiato

La prima operazione necessaria è un chiarimento semantico. Le parole non sono neutrali né casuali: profugo vuol dire una cosa, rifugiato un’altra, immigrato un’altra ancora. E le statistiche ufficiali (dati Frontex) dicono che la grande maggioranza dei disperati che arrivano sulle nostre coste e rimangono a marcire per uno o due anni nei centri per migranti non sono profughi né aspiranti rifugiati politici, bensì immigrati (clandestini) mossi da ragioni economiche o di altro genere. Ragioni comprensibili e dal loro punto di vista più che legittime, ma che non rientrano nella legislazione italiana e internazionale che disciplina l’accoglienza dei profughi di guerra (o di catastrofi naturali) e la concessione dello status di rifugiato politico.

Nel 2014, su un totale di 170 mila immigrati arrivati coi barconi, appena 40 mila erano siriani, perciò in fuga da una guerra vera; nell’arco del 2015, invece, i siriani non erano neppure più tra i primi tre gruppi di provenienza dei profughi. Al primo posto ci figurano migranti dal Gambia, poi da Somalia e Senegal: Paesi non in stato di guerra, anche se in Somalia esistono forti tensioni legate alla presenza del terrorismo di matrice islamica. C’è poi il caso anomalo degli eritrei, che rimangono ancor oggi tra uno dei più numerosi gruppi di stranieri che approdano sulle coste della Sicilia. In Eritrea non c’è più la guerra da oltre vent’anni, non c’è terrorismo, forse c’è povertà ma non miseria né carestie. E negli ultimi anni le aziende cinesi investono massicciamente in un Paese che per storia, cultura e tradizioni potrebbe (anzi, dovrebbe) far parte della sfera d’influenza italiana. Eppure i giovani eritrei fuggono dal proprio Paese per motivi politici, si dice, e perché laggiù il servizio militare dura parecchi anni. No comment.

Gli arrivi dal Pakistan e dal Bangladesh

Fra i gruppi etnici ai primi posti nelle classifiche dei migranti che attraversano il Mediterraneo ci sono poi quelli giunti da Pakistan e Bangladesh, altre due nazioni in pace da decenni. Nelle scorse settimane nel campo profughi di Settimo, alle porte di Torino, sono stati censiti migranti provenienti da 28 diversi Paesi del mondo: Pakistan; Nigeria; Sudan; Ghana; Bangladesh; Mali; Afghanistan; Eritrea; Somalia; Costa d’Avorio; Congo; Turchia; Camerun; Gambia; Togo: Guinea; Marocco; Iran; Burkina Faso; Etiopia; Senegal: Sierra Leone; Azerbajan; Guinea Bissau; Tunisia; Niger; Liberia; Ciad e Libia. Di questi 28 Paesi appena sei, se vogliamo considerare anche i conflitti interni a bassa intensità, sono in stato di guerra.

I rifugiati “veri” accolti in in Italia: quanti sono?

Il risultato è che, dopo un anno o due, pochi ottengono il permesso di soggiorno perché profughi o rifugiati. Secondo un recente articolo del Giornale, che cita dati del Viminale, «Circa il 50% delle domande di asilo nei primi mesi dell’anno sono state rifiutate. Il 40% delle persone sbarcate non hanno nemmeno fatto richiesta di protezione: 41mila arrivi da gennaio a maggio, 24.678 richieste di asilo. 17mila persone non si sono dichiarate profughi: o perché non lo sono, o perché hanno provato a chiedere protezione in un altro Stato europeo. Di quel 60% che rimane, appunto, uno su due non ha i requisiti per essere considerato rifugiato. Alla fine dei conti solo uno su quattro ha diritto allo status di rifugiato». «I veri e propri rifugiati, coloro che hanno ricevuto un permesso di soggiorno in Italia di 5 anni rinnovabile, sono stati il 10% di chi ha ottenuto protezione: si tratta di persone perseguitate nel loro Paese per motivi di razza, religione, opinione. Agli altri a cui è stato concesso il permesso di asilo è stata attribuita la protezione sussidiaria o umanitaria, legata alle condizioni dei Paesi di provenienza e non alle storie specifiche, con un permesso di soggiorno di 3 anni. Il 50%, come detto, sono stati i “no”».

Tutti, però, sono costati alle nostre casse i famosi 35 euro al giorno che finiscono nelle tasche dei professionisti dell’accoglienza, come ormai sappiamo grazie alle inchieste giudiziarie su Mafia Capitale. I conti sono presto fatti: ogni migrante accolto in Italia ci viene a costare, solo in termini di soggiorno (esclusi quindi i costi sanitari, quelli del pattugliamento della Marina militare, delle pratiche burocratiche etc.) più di 12 mila euro all’anno. Moltiplicate la cifra per il numero di immigrati che arrivano ogni anno sulle nostre coste e si capisce bene il perché di tanti interessi e appetiti. E il perché di tanto entusiasmo mediatico ogni qual volta una nave italiana recupera un barcone di migranti (magari a dieci miglia dalla costa libica, non in acque italiane… anche su questo ci sarebbe molto da dire). A Ferragosto si è raggiunta quota 100 mila, quindi ci sono tutte le carte in regola per superare il record di 170 mila dello scorso anno.

Il business dell’accoglienza

Costi reali, costi sociali, business dell’accoglienza spesso illegale, favoreggiamento delle mafie degli scafisti e delle gang di trafficanti d’uomini, missioni internazionali come Mare Nostrum e Triton che oggettivamente incentivano l’immigrazione clandestina. Senza contare l’ignavia di un Paese che lascia arrivare centinaia di migliaia di migranti, li butta in qualche paesino sperduto per un anno o due, in attesa di non si sa bene cosa. Fra l’altro bruciando posti e risorse per i “veri” profughi che avrebbero diritto allo status di rifugiato. Questi sono i veri temi che andrebbero rinfacciati ai teorici dell’accoglienza irresponsabile. Non slogan demagogici, non post xenofobi su Facebook e Twitter.

@barbadilloit

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