Cultura. Il disagio nella modernità di Junger e Schmitt

Ernst Jünger e Carl Schmitt nel 1941
Ernst Jünger e Carl Schmitt nel 1941

Dell’eletta schiera degli intellettuali rivoluzionario-conservatori tedeschi tra le due guerre, Ernst Junger e Carl Schmitt occupano le posizioni centrali. Entrambi hanno espresso il disagio della modernità di fronte all’avanzare del nichilismo (il primo) ed alle convulsioni del potere (il secondo).

Che l’una e l’altra posizione si integrino magnificamente per comprendere le contraddizioni drammatiche del Novecento che ci siano portati nel nuovo secolo, è fuori di dubbio. Tanto Junger che Schmitt, legati peraltro da profonda stima che tuttavia non è mai sfociata in un legame ideologico-politico come sarebbe stato lecito attendersi, hanno tentato un cammino “ribellistico” nei confronti della cultura e della visione del mondo che stava prendendo il sopravvento. Sia riguardo alle involuzioni della democrazia che rispetto agli esiti della crisi spirituale europea.

L’abbagliante totalitarismo materialistico, determinista e relativista li ha visti all’opposizione per quanto il loro coinvolgimento nelle vicende che segnarono la prima metà del secolo scorso li abbia fatti passare, stupidamente e superficialmente, come apologeti di ciò che tentavano di arginare: lavorando dal di dentro (Schmitt) fino a quanto fu possibile; immaginando una via aristocratica ed impersonale, esplicitamente individualista (Junger) per dare un senso alla pratica eroica del superamento dei valori borghesi che infiacchivano all’epoca l’Europa e la Germania.

Schmitt (1888-1985) non provò mai ad estraniarsi dal contesto storico nel quale il suo lavoro teorico prendeva forma nella definizione delle categorie della politica, della critica alla nuova geopolitica sofferente dopo la fine del Trattato di Westfalia, e alla conseguente decadenza del Vecchio Continente in seguito alla cancellazione dello jus publicum europaeum (il diritto interstatale che delimita l’ordinamento spaziale della res publica cristiana medioevale). Ma si poneva anche il problema della sovranità – tornato di gran moda negli ultimi anni – ragionando attorno alla figura del “decisore” ed alla legittimità del potere. Temi condivisi ormai da tutta la politologia più avanzata, senza pregiudizi di sorta. Ed è per questo (anche) che vale la pena immergersi nella lettura di «Imperium» (Quodlibet, pp.292, euro 16,00) che è una sorta di autobiografia dello studioso tedesco in forma di intervista realizzata nel 1971, quando Schmitt aveva ottantatré anni, dallo storico Dieter Groh e dal giornalista Klauss Figge.

In essa il grande giurista, non ancora “assolto” per le sue idee, espose senza reticenze i più problematici momenti della sua vita ed in particolare come divenne suo malgrado “giurista del Reich”, quasi inconsapevolmente, salvo poi essere attaccato duramente dagli ambienti più criminali del regime che ne condizionarono la carriera accademica e politica, ma non impedirono agli alleati di processarlo a Norimberga dove venne assolto con un “non luogo a procedere” avendo riscontrato, perfino i suoi detrattori più accaniti, nessuna complicità con le nefandezze naziste.

Vita pubblica e vita privata s’intrecciano in questa intensa “confessione” dalla quale viene fuori il senso di una lunga vita votata alla scoperta dei fondamenti reali della politica e della centralità dello Stato come “ordinatore degli ordinamenti”. Da qui la sua “inimicizia” totale verso la modernità affossatrice di ogni principio regolatore dell’esistenza umana.

Lo stesso – e ciò li accomuna – può dirsi di Junger (1895-1998) che a centoventi anni dalla nascita e a diciassette dalla morte non smette di interrogarci sulle questioni poste dalla catastrofe esistenziale nella quale siamo immersi richiamati dal denso volume «Ernst Junger» (Solfanelli editori, pp.514, euro 30,00), ideato e curato da Luigi Iannone, nel quale ben trenta autori affrontano i “nodi” dell’ultimo grande scrittore tedesco che nessuno pensò mai di candidare al Nobel (e questo, come disse Alain de Benoist, qualifica in un certo modo il Novecento).

Iannone, molto opportunamente, richiama la definizione che meglio rappresenta Junger: «Sismografo dell’era della tecnica», in quanto connessa all’interpretazione della modernità della quale respinge le fantasmagorie sprigionate da un “pensiero negativo” che ha liquidato le libertà sostanziali per omologarle ad un universalismo nel quale sono sparite le differenze e si sono dissolte le “forme”, come le chiamava Gottfried Benn, che racchiudono il decaduto concetto di “umanità”: sacralità, onore, coraggio, comunità e via elencando.

La figura dell’Anarca, estrema rappresentazione del rifiuto da parte di Junger, è la sola abilitata “all’attraversamento del bosco”, cioè della crisi. Ma occorre una preparazione spirituale che francamente non è alle viste. Junger l’ha impersonata.

A chi lo legge rimane la suggestione di un orizzonte possibile, di un traguardo sperabile. (da Il Tempo)

@barbadilloit

Gennaro Malgieri

Gennaro Malgieri su Barbadillo.it

Exit mobile version