Libri. Gli “Insoliti sospetti” di Salvo Toscano, un giallo tra Dio e la Sicilia

insoliti sospettiPer una volta il rapporto qualità-prezzo è tutto a danno dell’editore. La segnalazione di copertina non arriva neanche a cinque euro.  E sono davvero troppo pochi per contenere il ritmo degli Insoliti sospetti di Salvo Toscano (Newton Compton, 2015). Un giallo. O meglio: il ritorno dei fratelli Corsaro tra gli scaffali. E dire che le prime pagine scorrono gustose e leggere, tanto da strappare qualche sorriso, soprattutto quando si parla dell’ingresso al maschile negli “anta”. Già. Tra peluria invadente, ipocondria a mille e le nostalgie per un passato da play boy, ci si perde dentro una storia che parla quasi sempre in siciliano.

Il cuore del romanzo è infatti a Palermo, ma la presenza della Capitale, per quanto tentacolare, non è opprimente o celebrativa. La stessa vicenda poteva essere raccontata a Roma, Helsinki o Mosca. Certo, nell’impasto fanno capolino anche palazzo d’Orleans e i sospetti su di un candidato alla presidenza della Regione Sicilia (mai poltrona fu più maledetta). Ma la politica non è affatto decisiva in questa vicenda. Anzi, la formula vincente di Insoliti sospetti è che date le premesse, il finale è tutt’altro che scontato. Chiamiamolo pure a sorpresa. Oppure alla Camilleri (ma neanche troppo). Nel mezzo c’è una stranissima combinazione di attimi che porta uno dei due protagonisti, il cronista di nera Fabrizio Corsaro, in carcere da innocente, accusato della morte di uno che più malacarne non si può: l’usuraio Onofrio Palillo, uno di quelli che pensa soltanto a fare soldi sui soldi.

Un intreccio angosciante, al limite del kafkiano. La differenza è che fuori dal carcere c’è l’altro Corsaro, l’avvocato penalista Roberto, che fa di tutto per tirarlo fuori. E ci riesce. In fondo, le accuse al fratello giornalista sono deboli, debolissime, inconsistenti tranne per le coincidenze: proprio quelle giocano tutte a suo sfavore. Ma sono sempre le coincidenze a far la differenza e con loro la voglia d’inseguirle per tutta le Sicilia fino ad arrivare in Lombardia. Il castello d’accuse, per quanto sbrigativo, c’è e ci sta pure un architetto che si rivelerà nel modo più atroce soltanto alla fine. Per lui forse vale la scusante paradossale di aver disegnato tutto per amore.

Sullo sfondo c’è Dio e tutto l’armamentario messo a sua disposizione: frati, parrini e la Bibbia. Attenzione, però.  Non c’è nessun don Matteo o don Tonino tra le pagine in giallo. E neanche il padre Brown in versione Rai interpretato da Renato Rascel. Semmai c’è quello creato direttamente dal genio del «Guareschi britannico», Gilbert Chesterton.

Nell’impasto fa il suo ingresso addirittura il sale dell’esperienza mistica. Nessuna estasi e neanche stigmate, ma le meno frequentate stazioni dell’assenza di Dio, la tentazione dell’ateismo e l’interrogativo dilaniante sul perché della sofferenza innocente. Una porta strettissima dalla quale passano o si fermano i grandi santi come i piccoli peccatori. «C’è un ateo dentro ogni credente, anche nel più santo», è la sentenza del vecchio e saggio don Trovato. A cui se ne accompagna un’altra che spiazza ogni sapere: «Roberto, la verità che ho compreso dopo novant’anni, è che per credere in Dio non è l’intelligenza la strada maestra». E allora? «Bisogna avere fiducia, come un bambino».

@barbadillo

@fernandomadonia

Fernando Massimo Adonia

Fernando Massimo Adonia su Barbadillo.it

Exit mobile version