Libri. “Il montaggio” di Volkoff tra spionaggio e mistica del ritorno

imageA Parigi, nel cimitero di Sainte-Geneviève-des-Bois, con le sue cupole, le sue croci di Sant’Andrea e le lapidi di pietra, innevate d’inverno, vive uno spaccato di vecchia Russia, sopravvive in mezzo ai defunti. Poeti, ballerini, persino un premio Nobel, Ivan Bunin, autisti di taxi e maitres d’hotel, generali bianchi ed interi reggimenti, cadetti e cosacchi, nobildonne e granduchi, servi fedeli riposano a Sainte-Geneviève, riuniti sotto i cieli di Francia. Vecchia Russia, un ponte di venti e di nubi, e, fra di essi, il sole di Rus’, Vladimiro il Santo, ed Aleksandr Nevskij con la spada fiammeggiante, fino a Zarskoje Zelo. All’ombra degli abeti o sotto le fronde piangenti dei salici, riposa a Sainte-Geneviève, Dmitri Aleksandrovic Psar, il guardiamarina mai rientrato. Faceva molto caldo in quel mese di giugno, e il prete mise molto incenso nel turibolo. Furono cantati gli inni (…). La bara fu calata nella fossa mediante asciugamani ricamati, prestati da una vecchia generalessa alla quale bisognava restituirli, tanto che, contrariamente all’uso, non furono lasciati al becchino; del resto, che cosa ne avrebbe fatto? Le zolle di terra si sbriciolavano sulla

Vladimir Volkoff

cassa d’abete. Zolle, zolle di terra francese, sopra cuori, russi, di esuli mai rientrati.

-Parigi, 194…

Aleksandr Dmitric Psar, un giovane russo, aspirante poeta, figlio di un guardiamarina della flotta imperiale, esule tra gli esuli, apolide tra gli apolidi, è nato a Parigi e qui ha studiato. Eppure è figlio di russi e i suoi avi, gli opricnik più fedeli e più feroci di Ivan, schiumavano la Russia, con la testa di cane e la scopa simbolici legati al pomo della sella; la testa di cane per la vigilanza, la scopa contro il tradimento (…) e si bisbigliavano all’orecchio i vecchi boiardi nelle loro pellicce, con le mani incrociate sul ventre. E’ il discendente di guerrieri, ma per lui non può esservi gloria in Francia, e, impressa negli occhi del giovane, resta la promessa al padre morente: “Alek… tu rientrerai al mio posto”. Era stato questo l’addio, poiché sollevò la mano per accarezzare Alek sulle falangette, ma non riuscì a toccarlo.

Corre l’anno 1946. La Russia ha trionfato ormai da un anno sulle armate del Terzo Reich e a Berlino sventola la bandiera rossa. La grande guerra patriottica ha trionfato e non importa quale Russia abbia vinto (“forse che il diavolo non è migliore del tedesco?”), eppure la guerra ha unito il popolo contro l’invasore, ha unito e cementato la patria. Il mondo malinconico degli emigrés, imprigionato nei suoi clichés tra il comico ed il drammatico tanto ben raccontati da Nabokov, vacilla, l’addio a Slavianka (non è poi forse lo stesso inno di Kolchak?) ha toccato le corde più vibranti del cuore di alcuni suoi membri. La Russia si è rigenerata? Forse sembrava che il corpo della patria avesse spontaneamente eliminato gli antigeni che vi si erano introdotti, mentre persino la Chiesa era lì, dorata, mitrata, barbuta, melodiosa e profumata come un tempo, nonostante e grazie al martirio. Insomma, da Stalingrado, dal rinato patriottismo dei mugik, dai massacri dei nazisti, non poteva che rinascere una nuova, autentica Russia che avrebbe tratto vigore dal suo glorioso passato come una giovane pianta dalle sue radici. Ora ciò che conta è rientrare, rientrare e ricongiungersi nella morte con la terra dei padri. Ed è questa la promessa che il vecchio guardiamarina Psar fa ripetere al figlio.

Dio vuole che in quei giorni operino a Parigi due singolari personaggi destinati ad incrociare le loro strade terrene con quella del giovane Aleksandr Dmitric: diavolo e demone, raffinato scopritore di talenti e gregario, lo stregone e l’apprendista, Maometto e la montagna, Mohammed Mohammedovic Abdulrakmanov e Iakov Moissevic Pitman. Mohammed Mohammedovic non parlava come un funzionario del KGB. Aveva una voce musicale di basso che piegava e dispiegava secondo le regole della più raffinata dizione. Se ne serviva come un attore, ma la sua pronuncia corretta ricordava piuttosto un professore d’università del Vecchio Regime. Egli è il genio, il deus ex machina; Iakov Moissevic non è che l’umile tentatore (…adorava il modo in cui Abdulrakmanov diceva “nnuss”: faceva pensare a vesti da camera, ex libris, a bicchieri di cognac, a levrieri), l’iniziato che svelerà al giovane Psar i segreti del dominio: “Ancor prima che io insanguini la spada il nemico si è arreso”; “coloro che sono esperti nell’arte della guerra sottomettono l’esercito nemico senza combattere, prendono le città senza dare loro l’assalto e rovesciano uno Stato senza operazioni prolungate”, recita Sun-Tzu, il genio cinese della guerra tanto caro ad Abdulrakmanov. Poco sangue, molte parole e testi stampati. Aleksandr Dmitric è il prescelto tra i candidati, egli sprigiona una volontà di potenza che gli fa desiderare di servire coloro nei quali vede i vincitori di domani, noi; dall’altra, desidera “rientrare”; (…) sono questi motivi che possono essere molle sufficienti per rendere vitale la missione che Abdulrakmanov ha in mente per lui: niente inseguimenti alla James Bond, né spionaggio né controspionaggio, bensì penetrazione culturale. Le sue potenzialità di poeta e la sua professione d’agente letterario, incubatore di scrittori,  saranno l’arma (se non si può essere un genio su comando, si possono dirigere i geni, pungolarli, aiutare gli uni a svilupparsi, soffocare gli altri, organizzare pubblicità o il silenzio…) e l’opinione pubblica francese, il nemico da sfiancare, rendere fiacco, impotente, succube, poco più che una foglia al vento prigioniera dei capricci di un Eolo sovietico. Ancor prima che io insanguini la spada il nemico si è arreso. Il tutto con grande discrezione.

La tentazione, il “momento sacro”, avviene a Notre-Dame, l’immenso vascello di una chiesa navigante in pieno cielo, presso la galleria delle chimere di Viollet-le Duc, quando ancora i turisti, piuttosto rari a quei tempi, ancora non impedivano il raccoglimento. Stavano fermi sul balcone, avendo alle spalle quel muro vertiginoso, sospesi al di sopra del mondo, e il mondo veniva verso di loro, trepidante… Ed è allora che, tra iniziato e neofita, avviene il colloquio che sarà decisivo per entrambi, il tutto in un’ascesi quasi mistica dovuta al luogo, alla valenza esoterica dell’insegnamento. Non è forse tramite questo e la sua applicazione che il giovane Psar, il piccolo Opricnik, potrà riunirsi al corpo mistico della madrepatria?

Non è questo il tempo in cui svelare al lettore benevolo e paziente i segreti di Sun-Tzu rapportati al mondo moderno, ma egli sappia questo: ci saranno sempre nel mondo, prove di forza con morti, ahimè, e atti d’eroismo e, naturalmente, atrocità, ma senza conseguenze decisive; le grandi sciabole taceranno nel fodero, la guerra si farà altrove. Per vincere lo scontro totale delle ideologie, dell’Occidente contro l’Oriente, la guerra senza nomos, la più temibile delle armi sarà l’influenza esercitata sull’opinione pubblica per demolire l’ordine vecchio senza proporre nulla di preciso per sostituirlo. Una sola dottrina dalla triplice forma in tre archetipi: la leva (…ciò che forma la leva è la distanza stessa e, di conseguenza, cercare sempre di aumentarla, mai di diminuirla. Ne deriva che bisogna sempre agire attraverso un intermediario o, ancor meglio, attraverso una catena d’intermediari…), il triangolo (…nulla di diretto, sempre degli intermediari, mai lottare sul proprio terreno né su quello dell’avversario, regolargli il conto altrove, in un altro paese, in un altro contesto sociale, in un altro campo intellettuale che non sia quello in cui vi è veramente conflitto) e il fil di ferro (…deriva dal fatto che, per spezzarlo, bisogna torcerlo in entrambe le direzioni opposte. (…) L’agente di influenza è il propagandista assoluto, colui che fa propaganda allo stato puro, mai a favore, sempre contro, senz’altro scopo che dare gioco, allentare, tutto scollare, sciogliere, disfare, dissertare). Il compito di Psar, agente d’influenza culturale, intermediario tra scrittori, giornali e case editrici, sarà muoversi dietro le quinte (…quanto è volgare l’essere uomo pubblico…), promuovere e distruggere talenti e testi, creare mode e disfarle, scardinare, piccolo, invisibile tarlo, le querce, e, maldestro operaio, infiltrare sabbia tra le fondamenta solide della cattedrale. Dovrà, Aleksandr Dmitric, regnare, lui, Ermete Trimegisto, uomo super partes, sulla terra di conquista dell’intellighenzia parigina. Il patto è stato stretto, l’amicizia suggellata, un patto di trent’anni per servire il proprio paese con la promessa di rientrare.

E’ questa la vicenda narrata da Vladimir Volkoff (1932-2004), autore assai discusso, anch’egli, come il suo antieroe Psar, parigino ma figlio d’esuli russi della prima emigrazione, in Le Montage, romanzo figlio degli ultimi anni della guerra fredda (fu pubblicato per la prima volta nel 1984), un testo che parrebbe degno d’essere inserito, insieme a Schmitt, Clausewitz e pochi altri, tra i classici della guerra politica. Un racconto di spionaggio raffinato, un elegante thriller per gentiluomini, un racconto toccante ed umano, incredibilmente umano.

Volkoff, francese per nascita benché russo, russo bianco nella cultura, dovette conoscere bene le regole dello spionaggio e, ufficiale dell’Armée de terre in Algeria, apprese che la guerra si fa più nei saloni e negli uffici di ambasciate e ministeri che in armi ed in campo aperto. Noto per i suoi polizieschi e i romanzi di spionaggio, pubblicati sotto svariati pseudonimi, ha lasciato con Le Montage quello che è forse il suo capolavoro.

L’idea del complotto non dispiace a nessuno: fornisce un alibi, una visione lineare della storia grazie alla quale è possibile individuare nemici e colpevoli che, per quanto occulti, sono pur sempre individui, personificazioni del male. Anche se v’è chi si ostina a crederlo, non viviamo in un mondo di complotti. Gli eventi, è vero, sono influenzati dalla mentalità che la società più o meno spontaneamente accoglie ma, nonostante l’idea sia suggestiva, sarebbe arduo poter affermare che minoranze (in questo caso il servizio segreto sovietico, ma potrebbero essere la CIA come le multinazionali del tabacco, il gruppo Bildeberg, gli ebrei o la massoneria…) agiscano in segreto per mutarla e plasmarla con scopi che corrono dall’eversione al suo mantenimento.

E’ un’idea succulenta, quella di penetrazione culturale, di manipolazione della mentalità. E’ quest’ultimo un fenomeno reale, non privo di una sostanziosa portata politica? Probabilmente sì, a giudicare da quanto la morale e l’opinione pubblica sono mutate nell’ultimo sessantennio, ma che siano forze politiche ad averne determinato il mutamento appare riduttivo; del resto il buon Sun-Tzu si occupava di sconfiggere il vicino celeste principato, non di assoggettare il mondo. V’è piuttosto dell’altro, forse il determinismo di una società che brinda alla sua morte. Occorrerebbe imbarcarsi in considerazioni che esulano dal presente contesto: ci si limiterà ad osservare come Le Montage offra, da questo punto di vista, un interessante compendio di tecniche di “guerra culturale” ad alto livello, senza dimenticare il contesto storico nel quale vide la luce. Resta una grande verità: quando si parla di mobilitare le masse, in realtà, non si ha che uno scopo, cioè immobilizzarle.

No, le ragioni per le quali il libro di Volkoff, non manca di interesse e di profondità sono altre.

Aleksandr Dmitric è un esule, figlio di esuli. Egli non ha mai percorso i viali barocchi di Pietroburgo, né gli spalti della fortezza moscovita; non ha visto le cupole di San Basilio, né la steppa o i campi di grano che, a sud di Rjazan, abbracciano i villaggi; e non ha scorto il sole russo, i timidi, gelidi raggi, penetrare, incerti, tra le fronde. Ha conosciuto la Russia dai racconti del padre, dai gesti suoi gesti e rituali, dalla liturgia ortodossa della cattedrale di Sainte-Alexandre Nevsky. Nulla sa di ciò che è divenuto il paese, tranne che ora sono i bolscevichi a regnarvi e che essi sono figli del diavolo. Eppure la Russia è forte, la Russia si è rigenerata e ha combattuto contro l’invasore come ai tempi di Carlo di Svezia e di Napoleone, ha battuto un nemico ancor più temibile, anch’esso figlio del principe di questo mondo.

Egli vive in Occidente e, per di più, a Parigi, madre delle idee del ’89. Un Occidente fiacco, ingrato, una carcassa vuota gettata sulle due sponde dell’Atlantico in attesa che la marea la sommerga da est. Ed è ad est che batte il suo cuore. Via da questi borghesucci occidentali, via! E’ il richiamo atavico della terra madre, il richiamo dell’esule sospeso tra due mondi. La morte e la vita, il limbo e la beatitudine. Il ritorno alla terra, alla madre. Per Aleksandr Dmitric non si tratta solamente di adempiere alla promessa fatta al padre morente. Pesa il richiamo della stirpe, le radici che affondano nella terra di Pietro e dei cosacchi, le radici della casta militare, aristocratica per definizione. Ma forse che anche i bolscevichi non hanno dato vita ad una casta militare e politica? Forse non hanno combattuto per la patria con lo stesso valore degli avi? Ciò che conta è servire, servire la patria e servirla bene: Psar e la sua schiatta sono stati creati per questo, nonostante la moderna macchina da guerra e le sue pistole automatiche ricreassero nel suo inconscio un mondo nel quale i suoi avevano perduto, si erano perduti. Paradossalmente v’è più affinità tra lui, nipote della reazione, e i figli del bolscevismo che tra lui stesso e l’Occidente.

Egli, russo, vive del mito, e del mito è stato nutrito. E’ un esiliato, un apolide gettato in una terra lontana, testimone muto di un passato che vive nella memoria ma che ormai è andato perduto nella realtà. Finzione e realtà. Menzogna e verità: dov’è il confine nel mondo che conosciamo? E dov’è in quello dei sogni e degli spettri dei nostri ricordi o dei racconti tramandanti? Esso è labile, un tracciato dalle forme appena distinguibili. È per il ricordo di una Russia antica che Psar potrà lavorare sottobanco per una Russia nuova e sovietica che nemmeno conosce. Il miraggio è il ritorno, il tanto atteso rientrare: una chimera, degna di Viollet-le Duc e dei suoi gargoiles. Si tratta del mito d’una terra promessa, la terra promessa al viandante, allo sradicato; inoltre è interessante notare come gli artefici dell’inganno siano due altri sradicati nelle immense propaggini della federazione sovietica: l’uzbeko Abuldrakmanov e l’ebreo Pitman.

Nel momento in cui l’illusione viene meno, in cui il mito viene a crollare in tutta evidenza, l’agente Psar, il colonnello cooptato del KGB Psar, è perduto alla buona battaglia. Semplicemente la piccola cellula dell’ingranaggio impazzisce, fugge i padroni, fugge correndo nella neve, come Eugenio Onegin sulla sua slitta. Egli è perduto per la Russia, e perduto per l’Occidente. Tenterà in quest’ultimo l’estremo approdo, ma non potrà che fallire, sacrificato sull’altare della politica. Forse perché, nella realtà, non v’è verità e non v’è salvezza.

È il 28 dicembre. Prima della fine dell’anno Aleksandr Dmitric Psar sarà “rientrato”.

Niccolò Nobile

Niccolò Nobile su Barbadillo.it

Exit mobile version