Artefatti. Cccp, fedeli alla linea (imprevedibile) che unì la via Emilia a Berlino Est

!!Partiamo dalla fine, perché nella storia del gruppo (anche, ma non solo) punk, denominato CCCP – Fedeli alla Linea, l’epilogo è sempre stato particolarmente enfatizzato, quasi come un trauma psicanalitico da gestire in comunione con il pubblico o un tradimento perpetuo che verrà compreso più avanti, in attesa che i tempi si adeguino alle profezie di Ferretti Giovanni Lindo, classe 1953, da Cerreto Alpi (RE). Partiamo ovviamente da Reggio Emilia, patria ed archetipo imprescindibile del sodalizio, Festival della fotografia europea edizione 2014. Oltre all’imponente retrospettiva su Luigi Ghirri, che dei CCCP si occupò con il peculiare stile magico ed essenziale, l’occasione è una mostra dedicata ai costumi di scena di Annarella Giudici, benemerita soubrette del gruppo. Sul palco, insieme alla protagonista della giornata, Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni e Danilo Fatur si ritrovano pubblicamente insieme dopo anni, raccontando aneddoti di quell’esperienza irripetibile terminata nel 1990, giusto prima di subire l’assalto di un pubblico ancora adorante: strette di mano, richieste di autografi e foto ricordo. Tutto un “io c’ero” finito in amabile amarcord tra reduci. Il sottoscritto con fare devozionale è là in mezzo, spintonante tra la folla, alla ricerca di quattro firme da apporre al vinile di 1964-1985 Affinità e divergenze fra il compagno Togliatti e noi del conseguimento della maggiore età, portato appresso per inguaribili motivazioni feticiste.

Certo è che già dai titoli assegnati agli album dei CCCP si apre una prospettiva che oltrepassa la semplice attitudine musicale, soprattutto riguardo al contesto asfittico ed ombelicale della musica leggera italiana di metà anni ‘80. Ortodossia, Compagni cittadini fratelli partigiani, Socialismo e barbarie, Canzoni preghiere danze del II millennio – sezione Europa, Epica etica etnica pathos, alludono, con una certa affabulazione, ad un immaginario desueto ed affascinante, in grado di coniugare credibilmente riferimenti eterogenei, dapprima fortemente nichilisti, mitteleuropei, totalitari, poi orientali e mistici, infine intimi e devozionali, senza mai perdere di vista l’ecosistema reggiano di provenienza. Si parte, anzitutto, da un’asse Reggio – Berlino (Est) che azzera lo stereotipo abusato “tra la Via Emilia e il West”, tipico dei cantautori addomesticati dal mito mercantile a stelle e strisce. Per Ferretti e soci l’America pare nemmeno esistere: decadente esotismo per lobotomizzati, si presume. L’estetica di riferimento – e qui l’apparato iconografico del gruppo impone già dagli esordi un codice fortemente riconoscibile – è quella sovietica, meccanica ed acciaiosa, declinata con sapiente ironia in chiave padana. Liscio da balera e disciplina di Partito, riassunto stravolgente di popolarità contadina ed intellettualismi metropolitani. Vocazione militante ribadita nelle esibizioni dal vivo, laddove viene messo in scena uno spettacolo totale che molto deve al teatro di avanguardia, ai balletti meccanici di Léger e alle provocazioni futuriste.

Altro elemento caratteristico, nonostante i punti di riferimento possano apparire piegati meccanicamente all’ideologia comunista, è l’impeto iconoclasta implicito, certamente mutuato dall’anarchismo punk e da una certa insofferenza per lo status quo: la lunga ed ipnotica traccia Emilia paranoica si farà manifesto di quel tedio misto a fermento, di quel tempo passato ad elucubrare senza costrutto. Fino alla caduta del muro di Berlino tutto un armamentario estetico consegnato all’immutabilità d’oltre cortina, diventerà per i Nostri marchio di fabbrica. Proprio attraverso l’ostensione ortodossa e rituale della simbologia bolscevica, dalla quale i dirigenti dell’allora P.C.I. tendevano ad emanciparsi (a vergognarsi?), accade un parodistico svuotamento di senso: falce e martello e caratteri cirillici perdono la funzione di fare proselitismo politico per diventare, con i CCCP, archeologia moderna e strumento allegorico, volutamente retorico. Anche dal punto di vista comunicativo, con un istinto tutto dannunziano per la sintesi pubblicitaria, riusciranno a riconvertire loghi come quelli Coop, Fiat e Coca-Cola in altrettante sigle autoreferenziali.

Dal 1982 al 1990 la parabola creativa dei CCCP muta di continuo, lasciando spesso attonito ed impreparato il fedele (alla Linea, va da sé) pubblico. Dapprima la firma di un contratto con la multinazionale Virgin Records getta nel panico la cricca oltranzista dei centri sociali, poi il riferimento a Mishima, messo giusto accanto a Majakovskij o le infatuazioni spirituali – islamica prima, cattolica dopo – alimentano ambiguità e fomentano eresie destabilizzanti nell’ottuso circuito alternativo nostrano; d’altro canto la cresta punk sul volto emaciato di Ferretti, la posa controllata da funzionario DDR di Zamboni, le parodie fascistoidi di Fatur – l’artista del popolo italiano –  e la folle leggerezza di Annarella, provocano scompiglio nella borghesia assonnata e benpensante di metà anni ‘80. A questo s’aggiungano le collaborazioni spiazzanti con Amanda Lear, ambigua musa catodica, l’apparizione a San Remo, i canti alpini imposti ad Arezzo Wave (allora santuario del rock alternativo) e una notorietà mediatica raggiunta senza compromessi riguardo a forma e sostanza. Con un piede fuori dal “sistema” e l’altro dentro, i CCCP si apprestano a diventare la colonna sonora più critica di un decennio italico che, emancipandosi dalla mitologica costituzione partigiana, finirà direttamente nella palude di tangentopoli.  Sobillatori e intransigenti quanto in fondo reazionari, “patriottici” e alla ricerca di una forma di bellezza sempre più tradizionale, i Nostri consegneranno con l’ultimo album Epica etica etnica pathos il loro testamento più sofferto, disilluso e lungimirante, assai pregno di ciò che da lì a poco diventerà cronaca.

Da comiziante filosovietico a contemplatore solitario, dal produci, consuma, crepa alle odi mariane, il genio irrequieto di Ferretti si trasformerà lentamente in lucido sguardo metafisico, in severa tensione apocalittica. Forse appagato dalle invettive giovanili, forse realmente folgorato dal ritorno equestre – Appennino, cavalli e misantropia? – alla casa materna appartata sui monti, lo stile salmodiante del cantante dei CCCP finirà naturalmente per alimentare reazioni estreme: come sempre amore e odio, verbo e bestemmia, prostrazione ed oltraggio. Giungeranno i tempi dei C.S.I. e de I Dischi del Mulo, delle mondine e dei viaggi in Mongolia; poi le separazioni e l’infatuazione, tutto sommato logica, per Benedetto XVI. Giungeranno gli strali e le confessioni, senza mai rinnegare alcunché. Ma queste sono, forse, altre storie. Troppo vicine a noi per essere raccontate.

@barbadilloit

Donato Novellini

Donato Novellini su Barbadillo.it

Exit mobile version