L’intervista. Buttafuoco: “La destra, i nostri morti e l’aquila della Russia”

Pietrangelo Buttafuoco
Pietrangelo Buttafuoco

Pubblichiamo un lungo documento-intervista a Pietrangelo Buttafuoco su destra, destrutti e nuovi patriottismi, curata da Fabrizio Fonte

A seguito dello scioglimento di «Alleanza Nazionale» e del fallimento del «Popolo della Libertà» era logico chiedersi che fine avrebbe fatto quel enorme patrimonio identitario, in termini, di idee- valori che la «Destra» (ci riferiamo in particolare alla componente Msi/An) ha portato avanti per de- cenni. L’intervista che segue a Pietrangelo Buttafuoco (realizzata a Custonaci il 20 agosto 2013) analizza in maniera cruda la situazione attuale nel mondo della «Destra» italiana. È ipotizzabile che tutto venga disperso per sempre? O sarà piuttosto vero il contrario? Cioè, che la lunga stagione di testimonianza non è definitivamente terminata, poiché i valori, riconducibili al «Movimento Sociale Italiano» prima e ad «Alleanza Nazionale» poi, non sono ancora del tutto diffusi in larghi strati della popolazione? A partire, innanzitutto, da quella visione spiritualista della vita, in contrapposizione a quella materialista propria del marxismo, rispettosa della cultura e delle tradizioni della Patria, del ruolo della famiglia nella società e dei concetti di legalità e di sicurezza.

Ma che cosa significa ai nostri giorni essere di «Destra» ? In verità non è così semplice ed immediato dare una risposta a questo quesito. Essere di «Destra» non si limita certamente a quel «Dio, Patria e Famiglia» stereotipi ormai consumati dal tempo e messi, in ogni caso, a dura prova degli eccessi di una globalizzazione imperante, quanto piuttosto, invece, a tutta una serie di idee-valori (promozione della giustizia sociale, rispetto dell’ambiente e del territorio, tutela del senso di appartenenza alla comunità nazionale ed, ovviamente, diffusione di un approccio legalitario al diritto) che hanno contraddistinto la vita politica di generazioni e generazioni di militanti di «Destra».

Oltretutto, come se non bastasse, in Italia vi è da fare una sottile, ma non troppo, puntualizzazione. La Repubblica nata dalle ceneri della «resistenza» ha di fatto impedito che si costituisse e si affermasse un vero blocco conservatore di «Destra», come è avvenuto invece nel resto d’Eu- ropa. Gli italiani in maggioranza moderati, per impedire la vittoria del Fronte popolare, s’intrupparono nella Dc, negando di fatto di essere concettualmente di «Destra». Se diamo adito a questa chiave di lettura è evidente che la «Destra» italiana ha incluso anche posizioni ideologiche (molto più estese del solo Msi/An) a partire dal cristianesimo democratico al nazionalismo, dal conservatorismo al liberalismo. In seguito in molti, per il concreto timore di essere classificati come fascisti, preferirono collocarsi al centro dello scenario politico. Tant’è vero che la «Destra» economica si definì di centro e la «Destra» ufficiale non ebbe per molto tempo cittadinanza nella politica italiana. Solo a partire dagli anni settanta, infatti, s’identificò col Msi.

A partire da quegli anni il suo spazio venne dunque occupato esclusivamente dai neo-fascisti, delegittimando qualunque posizione o idea riconducibile all’area della «Destra» (cattolico-conservatrice, moderata, liberale, etc..). Destra = Fascismo = Msi. Tuttavia c’è da dire che questa «Destra» italiana si è mossa in controtendenza rispetto al quadro europeo. Mentre per buona parte del dopoguerra negli altri paesi europei la «Destra» nazionalista venne rappresentata da pic- coli gruppi destinati più o meno velocemente a scomparire, in Italia invece si concretizzò un fenomeno unico ovvero la presenza del Msi che fu, per forza elettorale, il quarto partito per quasi un cinquantennio. Dal punto di vista storiografico occorre, infatti, riconoscere che il Msi riuscì a trasformare i nostalgici del fascismo da potenziali rivoluzionari a degli innocui elettori, inte- grandosi, fin da subito, nel sistema democratico della nuova Italia repubblicana, confermando (anche negli «anni dell’isolamento») la scelta di campo compiuta con la segreteria De Marsanich (non restaurare, non rinnegare).

Questo status quo si mantenne, più o meno stabilmente, fino ai primi anni novanta, quando il Msi-Dn approfittò del ciclone giudiziario di Tangentopoli, che mise a nudo la gestione del po- tere durante la «prima Repubblica». Lo stravolgimento dello scenario politico italiano, con il venir meno degli avversari storici (Dc, Psi, etc..), favorì certamente la nascita post-fascista di «Alleanza Nazionale», con la definitiva «storicizzazione del fascismo» da parte della «Destra» italiana. Del resto la lotta di rappresentanza era stata vinta su tutti i fronti. Ragion per cui non aveva più senso arroccarsi su posizioni ideologiche ormai superate, quanto invece guardare al futuro con nuove prospettive. Non a caso con la nascita della «seconda Repubblica» gli uomini di An sono stati chiamati più volte, sia a livello periferico che centrale, ad avere importanti re- sponsabilità di Governo cosa in precedenza inimmaginabile.

La nascita del «Popolo della Libertà», e la consequenziale scomparsa di An, doveva dar luogo alla nascita del più grande partito della storia della democrazia italiana. L’intendimento era, almeno inizialmente, quello di costruire una «Destra» più moderna, realizzando un soggetto politico più vasto, ovvero un cosiddetto country party, che sapesse essere il punto d’incontro e di fusione, in chiave post-ideologica, delle tradizioni cattolico-liberale, riformista-socialista e na- zional-conservatrice.

Come sappiamo questa esperienza è miseramente fallita. E buona parte del mondo che si riconduceva all’area di «Destra» è in attesa di un movimento che possa rimettere politicamente in piedi quella comunità. C’è da dire che ormai da alcuni mesi è in atto una rinnovata vitalità po- litica tra i diversi rappresentanti dei partitini di «Destra» venuti fuori dalla diaspora di An. Tut- tavia il dibattito sul futuro della «Destra» politica italiana non può essere marginalizzato, con tutto il rispetto, a delle piccole sigle elettorali dell’1 o del 2 %. Quando, invece, per gli istituti di ricerca un largo consenso si può tranquillamente raggiungere attraverso un unico contenitore di riferimento.

È evidente tuttavia che bisogna, come adesso dicono un po’ tutti, ripartire da quelle idee-va- lori che il patrimonio identitario del mondo della «Destra» esprime da sempre. Del resto proprio la loro messa in discussione, negli ultimi anni di An, ha portato lentamente alla sua scomparsa dallo scenario della politica italiana.

Per fortuna c’è, ed è sotto gli occhi di tutti, tutto un movimentismo di «Destra», in particolare sui blog o sui social network, che conferma una frenetica attesa di un momento di sintesi che sap- pia catalizzare, da Bolzano a Trapani, tutto un mondo, che della propria militanza ne ha fatto una bandiera di vita. Se non si riesce a cogliere a pieno l’entusiasmo di questa spinta dal basso, per delle mere logiche personalistiche, si rischia seriamente di continuare ad essere ininfluenti per molto tempo ancora.

Riprendere, pertanto, i temi tradizionali della militanza di «Destra», quali la riforma dell’as- setto costituzionale, in senso presidenziale, della Repubblica, la sacralità della vita, la tutela alle fasce più deboli della società ed il problema dell’immigrazione clandestina, che, devono essere i punti di partenza del nuovo partito, è un dato indifferibile. Ovvero un moderno «Partito della Nazione». È necessario, infine, ripartire dalle cose che uniscono, perché la passione, la militanza della gente comune per la «Destra» non è stata certamente casuale o fortuita, ha invece delle pro- fonde radici. E questo sentimento, fondato sul convincimento della diversità di essere di «Destra», ha rappresentato nella sua accezione positiva un unicum, una qualità, un modo di essere e di stare assieme all’interno di una grande comunità, differente dalle altre perché ricca di una sua storia e di una sua tradizione; ma al contempo aperta a chiunque volesse indirizzare la propria vita politica e sociale sui binari della probità, della correttezza e della coerenza, solo così si è riu- scito a creare quel meraviglioso ambiente umano che ha scritto delle pagine importanti della politica italiana e che oggi appare necessario preservare dall’oblio. Tuttavia bisogna riconoscere gli errori commessi nel passato e l’intervista di Pietrangelo Buttafuoco è in questo senso a dir poco illuminante.

I «Destrutti» la fine, a tuo avviso senza ritorno, di una comunità militante, che aveva segnato con grande passione civile, con grande passione politica generazioni e generazioni di giovani dal dopoguerra in poi. Perché hai scelto questo titolo così forte?

«Io sono qui per Dino Grammatico. Perché quando hai detto Custonaci. Per me Custonaci è Dino Grammatico. E ho detto sì, perché dico tanti no. Ho detto sì, perché per me è una storia sen- timentale. Una storia di carne, di sangue, di memoria, di immagini in bianco e nero. Certo tante foto in bianco e nero. Ed è l’album più bello di cui ognuno di noi può fare vanto nel vedere quelle facce. I morti non ci sono più ? I morti sono con noi. Questi morti sono l’aristocrazia più facile, più disponibile, più immediata, più bella. La nostra aristocrazia sono quei morti. Io sono qui perché l’altro Comune bandiera era Nissoria. Io sono qui per rispetto di quella pattuglia stra- ordinaria che seppe essere protagonista in una fase della storia in cui la Sicilia fu protagonista. Altro che nella scena nazionale, in una scena ancora più importante. Altro che il linguaggio di oggi. Era una Sicilia dove veramente tutto il mondo arrivava e dove quella capacità di essere pre- senti al di là dei sentimenti di guerra civile, di ostilità, di odio. Qui diventavano, invece, materia viva, concreta. C’era la possibilità di essere riconosciuti. E noi abbiamo questa aristocrazia. Sono tutti morti è vero. Però di cui possiamo far vanto, perché quando non riusciamo ad essere presenti a noi stessi, e purtroppo non siamo più presenti a noi stessi, però ci sono loro e potremmo fare un appello a convocarli uno dopo l’altro e troveremmo finalmente le bandiere più belle e sono quelle che hanno raccontato il nostro sentimento. La nostra storia riconosciuta da tutti. Anche da quelli che non misero mai né piede né naso, né si sarebbero sognati di entrare nelle sezioni di quel partito, che riuscì ad essere in Sicilia, a maggior ragione in Sicilia, la casa della gente perbene. Riconosciuta da tutti e da tutti cercata. Sappiamo perfettamente che cosa signi- ficava quella folla tricolore festante nelle nostre piazze, nelle tante piazze. Grazie ad una politica che era militanza, che era la possibilità di costruire una vita dove riconoscersi. Si sono stabiliti legami, si sono stabilite storie, si sono stabiliti destini, che non meritavano di essere ridotti, come è ridotto adesso in un abbandono, in uno stato, in una prostrazione che a livello nazionale ha can- cellato tutto ciò. E adesso ti rispondo perché i «Destrutti», perché siamo stati cancellati e ven- t’anni di berlusconismo hanno fatto, ottenuto, portato all’incasso un risultato che neppure nel triangolo della morte sognavano d’immaginare, nel cancellare quell’esperienza politica di un mondo, che era sopravvissuto ad una guerra, ad un dopoguerra, alle persecuzioni ai tanti morti ammazzati, abbandonati nelle strade di tutte le città d’Italia. Un mondo che era sopravvissuto anche a delle leggi liberticide. Un mondo che era sopravvissuto a tutta una stagione d’odio, che diventò terribile nell’azionismo torinese quando concepì il concetto che diede fuoco alle polveri: «uccidere un fascista non è reato». Un mondo che è sopravvissuto al Consiglio Comunale di Milano che, quando dopo i quaranta giorni di agonia di un ragazzo di 17 anni alla notizia del- l’avvenuto decesso, scattò in un applauso di evviva, perché finalmente un altro si aggiungeva alla sequela del cimitero. Un mondo che era sopravvissuto a tutto questo è stato cancellato, ma da chi? Da Silvio Berlusconi? Forse. Ma a maggior ragione dalla complicità di chi, ereditando questo mondo, avendo avuto mandato da questo mondo di rappresentare la nuova fase politica ha rappresentato il peggio. Il peggio rispetto a quelli che negli anni passati della militanza e dell’attivismo venivano indicati come i rappresentanti di un regime. Il peggio di quello che nei comizi noi avevamo sentito definire la partitocrazia. Il peggio rispetto a quelli che arrivando nelle stanze dei bottoni non hanno saputo trovare altre asole che quelle degli interessi privati loro. Quelli che arrivando per esempio nella più grande fabbrica culturale italiana qual è la Rai non hanno saputo far altro che trasformarla in un puttanificio. Quelli che avendo avuto a disposizione la posibilità di confermare una volta per tutte la storia di questo mondo né hanno fatto strame, a maggior ragione quando un Sindaco della prima città d’Italia faceva a gara con i peggiori seminatori d’odio nel farsi e proclamarsi antifascista, con cinquant’anni di ritardo, rispetto ad una storia che meritava soltanto pacificazione e non rinfocolare con la forza e l’odio dei neofiti. E tutto questo quindi è andato «Destrutto». Non c’è stato verso. Lui per esempio questo Sindaco non si è potuto salvare. Stava a braccetto con tutti i suoi nemici. Ed i nemici sono stati i primi ad abbandonarlo. E la fatica quindi di andare ad individuare qualcuno che potesse dire beh quello sta lavorando bene. Chi, dove, quando, come ? Non c’è un Ministro di cui si possa avere memoria. Perfino la Lega. La Lega Nord. La Lega dello scandalo dei diamanti. La Lega che è quella che si è persa in mille rivoli per tutte quelle vicende. La Lega del trota. Perfino la Lega può ben dire di avere dato a quell’esperienza il più bravo dei ministri dell’Interno, che è Maroni. La Lega che poteva ben dire che almeno una città romana, la seconda città romana d’Italia cioè Verona, ha avuto un ottimo Sindaco che comunque adesso è in gara per la possibilità di ricostruire questo fronte. La Lega almeno ha avuto una sequela di personalità, di storie che hanno rappresentato il territorio. Ma di tutta quella vicenda, di tutta quell’avventura, di tutto quello che fu la storia della «Destra», che cosa è rimasto? Sono rimasti i nostri morti. I meravigliosi nostri morti, che morendo prima non hanno potuto assistere a questa vergogna e si sono salvati».

Non è che, nel momento in cui sono cadute le ideologie, la nuova classe dirigente della «Destra», che non è stata chiaramente all’altezza dei suoi Padri a cui tu hai fatto ampiamente riferimento, ha subito pesantemente l’egemonia culturale della «Sinistra» ? Anche perché, se così non fosse, verrebbe complicato spiegare oggi ai più giovani come si è passati in un lasso di tempo tutto sommato così breve ad un crollo verticale di tutta una struttura ed una comunità ?

«Secondo me è stata la realtà che ha cancellato tutto. Non sono stati in grado di reggere la prova di forza con la realtà. I cosiddetti colonnelli, andiamo ad esempi concreti, facciamo un gioco speculare tra la «Destra» e la «Sinistra». Prevalentemente i colonnelli venivano dall’espe- rienza del «Secolo d’Italia», che mettiamo da un lato e mettiamo l’«Unità» dall’altro. Qual è la differenza? L’«Unità» è un’officina giornalistica, pesantemente ideologica ovvio, controllata dal partito altrettanto ovvio, però aveva una funzione che era quella di addestrare professionalmente dei giornalisti che dopo un certo periodo venivano spediti altrove a proseguire il loro lavoro. Quindi a creare giornali fiancheggiatori tipo «Paese Sera», poi molti andavano al «Corriere della Sera», molti andavano a «Repubblica» e andavano a fare quel lavoro. Invece al «Secolo d’Italia» non si andava da nessuna parte, diciamo perché nessuno se li prendeva? Forse no! Perché pre- valentemente era una sorta di lista d’attesa per diventare poi parlamentare. Non molto tempo fa Michele Serra diceva una cosa su cui ho riflettuto. Diceva che una volta la «Destra» che cos’era? La «Destra» erano i libri, la «Destra» erano i musei, la «Destra» erano le Istituzioni. La «Sinistra», invece, erano i fumetti, erano le balere, era un sentimento verso il basso, che non si con- sentiva quindi l’autorevolezza delle Istituzioni. Quindi la «Destra» era, per esempio, una certa idea della magistratura, una certa idea della cattedra universitaria. Tant’è vero che fino agli anni ’50 e ’60 la maggior parte di quel variegato mondo missino era una realtà sociale trasversale, per cui si andava dall’operaio al professionista, al cattedratico, all’autorevole avvocato. Insomma figure che erano dentro la società. Dopo dagli anni ’70 in poi che cosa è successo ? È successo che quella che doveva essere responsabilmente la parte della classe dirigente era diventata sol- tanto una macchina per produrre, nei limiti del possibile, dei parlamentari. E quindi le uniche possibilità di struttura quale poteva essere quella di un giornale erano circoscritte a quella pos- sibilità, per cui tu non avevi modo di sperimentare delle figure professionali che potessero andare oltre. Tu dicevi la famosa egemonia culturale, beh forse ce la siamo meritata, perché abbiamo fatto poco anche in termini di linguaggi, in termini di sfida, di riflessione a confrontarci con una realtà che pretendeva invece un salto di qualità. Ricorderà, chi ha fatto attività politica, la cosiddetta stagione della «Nuova Destra». Fu una stagione curiosa. Piena di spunti e soprattutto con un impegno notevole. Si pretendeva che si fosse poliglotta e quindi c’era la possibilità di confrontarsi con esperienze che da fuori confortavano e confermavano anche l’esigenza di un qual- cosa che andasse a «Destra» oltre la «Destra». Fu una stagione che contaminò non poco l’esperienza politica della «Destra» italiana, al punto tale che in una delle vicende congressuali più delicate la punta massima di questo ambiente ebbe la maggioranza dei voti nel «Fronte della Gioventù». E mal ce ne incolse allora proprio Almirante, che di errori ne fece tantissimi, scelse e impose Gianfranco Fini, perché li si confermò quella che era l’intuizione di quello che fu un gran genio di questa storia Arturo Michelini, quando disse che l’unica corrente filosofica che at- traversava questa stagione, questo ambiente, questo mondo era l’idealismo. Nel senso che idea- lista era colui il quale aveva l’idea della lista. E questo confermò poi anche la necessità di circondarsi di fedeli esecutori e non di quello che poteva essere l’apporto critico, lo spunto po- lemico forte. Io non voglio, come dire, ancora pigiare il tasto della nostalgia, ma me lo dovete consentire di raccontare il paradigma Anfuso, che per me è fondamentale per far capire come co- munque questi tre milioni di gente perbene, fosse veramente perbene, e cioè quando in uno dei tanti congressi del «Movimento Sociale Italiano» ad un certo punto, com’era solito, scoppiò una rissa tra i delegati e fu il momento in cui volarono cazzotti.

Rissa in galleria di Umberto Boccioni

Le sedie assieme ai cazzotti volavano e c’erano, quasi come in un affresco di Boccioni, altro che risse in galleria, molteplici risse che si scatenavano in un dinamismo che solo il futurismo avrebbe saputo decriptare in un modo migliore e Filippo Anfuso, lo voglio evocare nella sua eleganza, nella sua inarrivabile classe si estrania da quella scena e chiama a sé mio zio, che allora era un giovanotto, e gli dice: «Ninuzzu veni cà. Guarda che bello non hanno niente da che spartirsi e si spartinu lignati». E questo paradigma ci aiuta a capire, perché questa propria specificità. C’era l’emarginazione, c’era una chiusura del mondo verso questa genia, ma questa genia comunque praticava una qualità. Giusto perché mi piace toccare anche corde problematiche sapete oggi, proprio oggi, i giornali hanno riferito, hanno raccontato, hanno impietosamente descritto il momento di una cerimonia e cioè che ieri è stato conferito un riconoscimento a Gianfranco Fini, perché non so in quale lido dell’Argentario. Non so in quale delle sue immersioni ha cavato fuori dai fondali un’ancora. Una preziosa vestigia antica di cinquanta anni e quindi in un manufatto di plastica hanno voluto omaggiare il presidente di questo riconoscimento. Mi fa impressione sfogliare i giornali, aprirli e vedere la sua fotografia imbacuccato nella muta da sub. Fa impressione perché oggi guardandolo mi sono ricordato di una scena che mi è rimasta appiccicata negli occhi. È stato l’ultimo istante in cui ho visto andar via da casa per ricoverarsi in ospedale e non uscirne più. Teneva tra le dita la meta- fisica di Aristotele. Era un uomo che molti di noi hanno odiato fortemente perché c’è un’antica ferita. Era Ernesto De Marzio. Se ne andò con la metafisica di Aristotele tra le dita. Vedi che spessore, che qualità. Era un mondo emarginato. Era un mondo tagliato fuori dal resto del mondo, ma era un mondo che aveva delle qualità straordinarie e quindi io non posso che essere pessi- mista, perché tutti gli esperimenti finora rodati non riescono neppure a raggiungere il minimo evocato da Totò: «che è la somma che fa il totale». Perché sono un’infinità di sigle. Sono un’in- finità di capetti. Poi a maggior ragione io venendo da Roma vi posso assicurare che a Roma li vivono una sorta di battaglia per bande di quartiere e di sette e tutta una gara a volere raggiungere la purezza a epurare chiunque si avvicini allo spazio o che non corrisponda ad una sorta di Sabba etologico tutti lì come le anatre a seguire e a ricondursi nel passo delle oche».

Pietrangelo andiamo al termine di questa breve intervista e mi sembra del tutto evidente che per te, rispetto all’azione politica del mondo della «Destra», le note negative sono maggiori rispetto a quelle positive. Quindi, secondo te, non c’è più alcuna speranza per questo mondo, per questa comunità di ritrovare in qualche modo il bandolo della matassa e tornare a dire la sua nell’agenda della politica italiana?

«Sono pessimista perché nel cinquecentenario della pubblicazione del testo fondamentale della politica «Il Principe» di Niccolò Macchiavelli. Al di là delle nostalgie, al di là di quello che ci possiamo raccontare noi, perché siamo qui a Custonaci; c’è un dato inoppugnabile: la maggioranza degli italiani non è di sinistra. Perché questa maggioranza di italiani, che non è di sinistra, non riesce mai a cavare un ragno dal buco e quand’anche si propone mettendosi in groppa ad un destriero impazzito ed egoista, pazzo, folle quale è Berlusconi in vent’anni non riesce a fare niente ? Perché mai? Queste sono le domande che bisogna porsi. Perché mai al di fuori di quel alfabeto e di quel linguaggio imposto dalla «Sinistra» nessuno riesce mai a realizzare qual- cosa che possa essere un progetto politico. Chi ci è riuscito? Vediamo la cosiddetta stagione del galantomismo meridionale? Nell’epopea del tatarelismo? E quindi le Puglie e tutti gli esperimenti come Bari che si riscopre nel lungomare. E poi le contaminazioni, l’aggregazione con quello che fu il mondo del craxismo. L’aggregazione con quello che fu il mondo della Democrazia Cristiana. E dove per esempio vediamo in Lombardia? L’esperimento della Lega, ma la Lega che cosa è stata? Se non una contaminazione tra identitarismo etnico, nel vero senso della parola, per quello sentirsi parte di una specificità locale e poi essere nel territorio e provare tutto. Tutte le ricette. Tutte le formule. Perfino quello di essere la costola della Sinistra. Andiamo a vedere dove poi ci sono state altri tentativi, altri esperimenti. Il Lazio, per esempio, sciaguratissima esperienza quella del Lazio, da dove è venuto fuori poi la figura di Batman, che era poi una ra- gazzo cresciuto in questo ambiente. Un ragazzo che aveva perfino sperimentato l’indignazione, gettando le monetine a Bettino Craxi, ma andiamo avanti. Dove ci sono stati gli altri esperimenti? Appunto Craxi forse. Il Bettino Craxi che aveva già immaginato di fare la sequela dei grandi italiani e dopo Cesare Battisti stava meditando di fregare tutti, mettendo pure Benito Mussolini non ancora Cavaliere. Quindi il Mussolini socialista, affidando alla RAI uno sceneggiato sul giovane Mussolini interpretato da Antonio Banderas nientemeno e lo realizzarono. Non per dire e giusto per non mettere il dito nella piaga, ma la «Destra» al Governo in RAI nel centocinquan- tenario dell’Unità d’Italia a San Remo, che era un San Remo con i “contromazzi”, nel senso che aveva Mazza direttore di RAI Uno e Mazzi direttore di San Remo. Espressione tutte e due di Al- leanza Nazionale riuscirono nel capolavoro dei capolavori, ma manco ai tempi dell’egemonia culturale mi sarei mai immaginato di vedere sul palco dell’Ariston il faccione di Antonio Gramsci e poi il tricolore sventolato da Roberto Benigni a cavallo. Ragion per cui quello che si pensava fosse l’identità, quello che si pensava fosse un’idea dell’Italia, quello che si pensava perfino il trotto del destriero, veniva messo sotto il cappello dell’egemonia culturale, per andarsene via poi con queste giustificazioni, citando Almirante: «io sorrido quando le nostre idee fioriscono sulle labbra degli altri». Ma a chi la raccontano? Questo significa veramente non aver saputo produrre nulla e spesso io litigo perché a proposito dell’industria culturale. Tutto parte dalla lingua, dal linguaggio, dall’alfabeto che si costruisce. Tutto parte da lì. Quegli animali dei cosiddetti «Teocon» americani «conservative». Questi «Tea Party», che per me sono come Satana, per fare proseliti nel mondo che cosa fanno? Dicono che c’è il fascismo islamico e si usa la parola fascismo per allertare tutti i pollai globali. Quindi tutti i pollai del mondo si allertano davanti a questa parola. La lingua e il linguaggio sono tutto. Tutto nasce da lì. Qualsiasi apprendista della politica sa che la polis si costruisce attraverso l’alfabeto, che offre e automaticamente impone la sua presenza. Questo per dirvi questi che sciagurati che si trovavano lì nelle stanze dei bottoni, per tentare di apporre le proprie asole a quei bottoni, quando fecero lo sceneggiato sulle foibe ebbero cura di evitare in qualunque modo di chiamare, coloro i quali spingevano, premevano, insacca- vano gli italiani nelle foibe, comunisti, ma piuttosto «titini». Metafore, accorgimenti, eufemismi fatti da chi? Ma dagli uomini di Alleanza Nazionale. Da uomini che venivano da quell’esperienza e da quella meraviglia che era la sezione di Trieste. Che cosa è tutto ciò un voler cancellare la propria identità per far che cosa? Andiamo al capitolo più delicato l’Italia attende la pacificazione dalla fine della guerra. L’Italia non è pacificata. L’Italia non ha la possibilità di poter dire una volta per tutte la storia è questa. Nel centocinquantenario dell’Unità d’Italia hanno avuto paura, e a me non me frega niente, di far correre, in quella che non era una parata, ma una sfilata, il tricolore con lo stemma sabaudo. L’Italia l’hanno fatta con lo stemma sabaudo, a me non me ne frega niente dei Savoia. Per me i Savoia sono quell’Emanuele Filiberto lì, che è il disonore e la vergogna dell’unico parente buono che avevano che era il Duca d’Aosta. Non me ne frega niente però è l’Italia che non riesce ad essere pacificata anche in questo dettaglio. E allora faccio l’esempio che a me è tanto caro. C’è stato nel mondo una cosa che si chiama comunismo. Il comunismo ha avuto la sua casa, il suo tempio nelle Russie. È stata la più potente macchina di organizzazione totalitaria. Si è lasciato alle spalle cento milioni e più di morti. È stata la macchina che ha edificato il materialismo scientifico, l’ateismo di Stato. È stata la macchina che ha inseguito ogni singolo individuo, e tuttora si capisce nel loro istinto, nel loro retaggio, in qualunque nascondiglio. Bene è stata restituita l’aquila alla Russia. È stata restituita ai colori della sua storia. Io mi immagino quando loro si guardano allo specchio e cercano di vedere che cosa sono ben oltre le profondità dello specchio e cominciano a guardare cosa c’è dietro in quella trasparenza. Allora vedono certo settant’anni di potere sovietico e indietro ancora l’inferno della rivoluzione bolscevica, satanica per eccellenza, e poi ancora l’impero, la loro storia e le loro figure. Bene quando loro fanno la parata in memoria della guerra patriottica, la chiamano così loro, sfilano davanti alle insegne della Patria, perché la chiamano così in Russia. Non la chiamano paese strano! Sfilano le insegne dello Zar, le insegne dell’Armata Rossa con la falce ed il martello, sfilano le insegne della nuova Russia, che riprende ancora una volta quelle dello Zar. L’Italia ha paura della propria storia e questo ci qualifica per la nostra pochezza, per il nostro essere periferia. È semplicemente vergognoso. Io sono stato a visitare il museo all’interno dell’Altare della Patria. Beh è impressionante. Si entra e tra i Padri della Patria c’è Badoglio. Subito dopo i famosi Padri costituenti e poi gli altri. Poi c’è il salto all’indietro ci sono quelli del Risorgimento e quelli dell’Unità d’Italia. Ma scusate io capisco le esigenze di memoria e di rendere merito a quella che è la costituente, costituita Repubblica italiana democratica fondata sul lavoro. Però vi siete dimenticati di qualcuno di molto importante, cioè tra i Padri costituenti metteteci a Calogero Vizzini, metteteci a Genco Russo, metteteci tutti quelli che con più efficacia rispetto ai vostri eroici partigiani hanno dato la possibilità allo straniero d’invadere il suolo Patrio. Mi pare giusto e quindi nella memoria che attende pacificazione e che venti anni di berlusconismo avrebbero potuto rappresentare l’occasione per raccontarla e per mettere finalmente la parola fine alla guerra civile i più accaniti cani sono stati gli uomini provenienti da Alleanza Nazionale».

Fabrizio Fonte

Fabrizio Fonte su Barbadillo.it

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