Cultura. Evelyn Waugh la compassione e l’illusione di una guerra antica

waugh1Tra i grandi scrittori britannici del ‘900, Eliot, Lytton Strachey e Virginia Woolf, Aldous Huxley e George Orwell, J.R.R. Tolkien e Graham Greene, brilla tenue un piccolo smeraldo, un diamante forse grezzo e meno raffinato, ma la cui punta acuminata il tempo non ha potuto smussare. E ancora taglia, e ancora ferisce la sua cuspide aguzza, ferisce e stilla sangue dall’animo: nient’altro che un diamante grezzo, presto rigettato con sufficienza nel mucchio anonimo dei talenti virtuosi e superficiali, della letteratura di svago e di piacere. Eppure, dimenticato, si fa largo con la prepotenza che gli è propria, e torna a riaffiorare in attesa di un intenditore discreto sul banco dei preziosi la cui lente cada, per errore o per sforzo, su di lui.

Questi è Evelyn Waugh, He-Evelyn per gli amici della Swinging London: attaccabrighe malizioso, esasperato ed esasperante (quando Randolph Churchill insinuò “Ci avete fatto caso che sono sempre le persone più religiose quelle più meschine e crudeli?”, egli ribatté “Ma mio caro Randolph, tu non hai idea di come sarei io se non lo fossi”), eccentrico dandy (“ostentando uno spericolato accostamento tra il rosso della cravatta a grandi pois e il viola della giacca (…) teneva languidamente la pipa tra le labbra, lasciando intravedere i gemelli dei polsini…”[1]) ed esteta, orfano un po’ di Chesterton, un po’ di Barbey d’Aurevilly, globe-trotter ed inviato militare in Jugoslavia, la sua stella decadente attraversa la prima metà del ‘900, per poi affievolirsi e quasi scomparire. Vissuto per poco più di sessant’anni, dal 1903 al 1966, nell’arco della sua carriera letteraria si cimentò col romanzo, la novella, il racconto di viaggio (Labels, Waugh in Abyssinia, When The Going Was Good); tra i giovanissimi non fu un uomo di Bloomsbury: una cerchia troppo intellettuale, troppo impegnata per un raffinato topo d’albergo indaffarato, di camera in camera, di party in party, a spiare, deridere e partecipare dei vizi e dei trionfi di quell’upper class cui apparteneva. Ma è solo l’arma dell’ironia a preservarlo da un tedioso moralismo, e, alternando sorrisi e bon mots, ecco che sonda e decreta il fallimento, suo e dei suoi poco amati umani fratelli. Immaginiamolo così, tra un cocktail party ed un’insulsa love story, strizzare l’occhio beffardo ad un cameriere in guanti bianchi, la coppa di gin e triple-sec in una mano, il sigaro nell’altra, mirando le ostriche del canale di Britannia… E lo sguardo pieno d’arguzia, troppo terreno per essere assente, troppo fragile ed umano per non piangere sommessamente.

Humor, macabra ironia, folle tendenza verso l’assurdo, senza però risultare forzato, eleganza e disinvolta raffinatezza animano le pagine del romanziere. Egli canta, celebra e deride una Londra danzante e perduta, la Londra dei ruggenti anni ’20 e degli incerti, operosi ’30. Affettato cronista mondano assetato di pettegolezzo, maligno moralista senza più moralità, convertito cattolico, uomo di Oxford diviso tra la ricercata noncuranza degli esteti (“…élite preziosa e manierata”,  scriveva Isaiah Berlin) e la ruvida epica semifeudale e godereccia del Bullingdon club, snob in smoking, sornione nell’ultima posa, in perfetto equilibrio tra l’alcol e il taccuino… Ma chi fu realmente Evelyn Waugh? Occorre cercare, metodici, sotto una spessa scorza di frivolezza, affinché affiori l’essenza, lo spirito, il dramma di una figura d’uomo e di scrittore.

Claudio Magris, nella prefazione di Der Tod meines Bruders Abel di Gregor von Rezzori, scrive a proposito dell’autore: “L’io si cerca nei ritratti di altri, nelle cose, nelle storie accadute, più che a lui, intorno a lui. E’ l’unica forma autentica di parlare di sé; solo attraverso ciò che raccontiamo di altri, amici o amiche o nemici, paesaggi, eventi, vicende capitate poco importa a chi, animali, guerre, morti, dolori, passioni nostre o altrui, si può far capire qualcosa di ciò che siamo…”[2]. Nulla di più vero per Waugh. Nei suoi libri, dalla prima opera a quelle scritte sotto la pressione dei creditori, a quelle di viaggio e della maturità, egli narra la sua vita, narra il suo animo combattuto. Acuto osservatore, eccolo rappresentare, come sul palcoscenico di un teatro londinese, la commedia umana dei suoi giorni. Studente fallimentare ad Oxford, scrittore “fallito” a soli vent’anni, insegnante in un collegio di provincia tra il tedio degli alunni acerbi e dei rozzi colleghi, ecco che, nel 1928, prende vita dalla sua penna Decline and Fall[3]. E’ il giovane Waugh, respinto negli affetti, respinto dalla vita, incerto tra il suicidio e quell’interminabile corsa che è la vita, a parlarci, a muoversi nelle vesti di un giovane insegnante di campagna, Paul Pennyfeather, protagonista, ma nei fatti spettatore muto ed imponente.

Decline and Fall. Declino e caduta. Impotenza, destino. Sono questi i temi dominanti della sua intera produzione letteraria. I personaggi di Waugh non scelgono, non prendono decisioni: lasciano che sia il corso degli eventi, un destino tragicamente comico o comicamente tragico, a governarli. Fluttuano, fluttuano danzanti, ignari dell’ombra della morte, dell’infinta, quasi ontologica futilità d’ogni cosa. Ecco i giovani amici della Swinging London, ecco i Bright Young People, ecco Harold Acton e Nancy Mitford, Brian Howard ed Anthony Powell, la crème di una jeunesse dorée troppo giovane per aver vissuto gli orrori della Grande guerra, in lotta contro il vetusto moralismo dei padri, eminent victorians, ma troppo esausta per affermarsi, per lanciarsi nella ricostruzione, e desiderosa di annegare in un drink e nel vuoto della più sfrenata lussuria, il destino di morte, di fine, di scomparsa… Troppo snob per la giovinezza bohémien di Henry Miller o di FitzGerald nella Parigi di quei giorni, questi Corpora vilia (…”vile bodies…”) sono poco più che inerti marionette di un dramma senza lacrime, senza morti né resurrezioni… E così Paul Pennyfeather, diligente ed irreprensibile studente di teologia, assiste alla sua cacciata da Oxford per atti osceni (reminiscenze universitarie del giovanissimo autore…), peraltro non compiuti, alla propria scalata sociale e al flusso della marea degli eventi che lo rigetta indietro, in prigione, in una fuga surreale, e ancora, sotto mentite spoglie ad Oxford, dove troverà la pace come “…gli ascetici Ebioniti solevano volgersi verso Gerusalemme in preghiera…”. Ma egli nulla ha scelto, nulla desiderato. E così il gentile e metodico Anthony Last (Last… l’ultimo… l’ultimo esquire, l’ultimo inglese, l’ultimo innamorato, l’ultimo gentleman?), e pure il suo insulso antagonista John Beaver di A handful of dust (1934) o lo sfortunato romanziere fallito di Vile Bodies (1930), Adam Fenwick-Symes, in perenne cerca del denaro necessario al proprio impossibile matrimonio. Essi non posso nulla: vittime e carnefici nella loro mediocrità, compagni delle prodezze e dei capricci di donne adultere e spumeggianti ma, in fondo, vittime anch’esse, è un vento frizzante eppure tanto forte, come il libeccio che soffia da sud-ovest, a sollevarli, spingerli e gettarli, inerti, di fronte alla morte, alla fine, al vuoto della loro anima. E poi nient’altro che polvere, una manciata di polvere…“…I will show you fear in a handful of dust…”, ricorda T.S. Eliot.

Naturalmente v’è qualcuno che sfugge alla legge ineluttabile di un destino mediocre: un personaggio che ricorre nelle più disparate opere di Waugh, un rampollo scapestrato e disincantato di quella stessa upper class, Basil Seal. Egli solo, dalle avventure “coloniali” di Black Mischief (1932) ai tempi di guerra di Put Out More Flags (1942), per finire con una, dopo tutto, spensierata anzianità in The Rake’s Regress (1962), egli solo, al limite dell’onestà, del buon gusto e di ogni senso dell’onore, prevale e sopravvive sulla società di morti nella quale si trova a vivere. Mezzo dandy e mezzo avventuriero, figlio degenerato e amante disinibito, in lui rivive il senso critico di Waugh che, forse, proprio sull’eccentrico ed incestuoso Basil proietta sé stesso, le proprie ambizioni frustrate, il proprio senso di noia, la vittoria che mai egli ebbe dalla vita. Neppure questa simpatica caricatura del gentleman scapestrato rappresenta la soluzione per il mondo decaduto e decadente di Waugh. L’amore che appaga il cuore più arido, il compimento, il tutto cui tornare e in cui dissolversi, non si troverà che in una vecchia cappella, a Brideshead, sotto le volte di un vecchio maniero, dinnanzi agli altari e il profumo di mirra ed incenso… Ed ecco che la grazia infinita di Dio abbraccia il peccatore stanco nel suo vagare.

Se il suo ghigno dissacratore sembra non risparmiare alcunché, tanto i pilastri tradizionali sui quali si regge la società inglese d’anteguerra quanto quelle tendenze “moderniste” che tentano di sovvertirla, non v’è compiacimento nelle pagine di Waugh. Inerme dinnanzi ad un’esistenza che riconosce votata al fallimento, vuota e priva di qualsiasi ambizione, di qualsiasi sentimento profondo, egli ha deposto le armi del saggio e, come i suoi personaggi, capitola dinnanzi al tempo. Al disastro universitario andranno a gravare su di lui il tradimento e il conseguente abbandono da parte della prima moglie, la raffinata Evelyn Gardner (She-Evelyn, probabile modello per Nina Blount in Vile Bodies), dopo pochi sereni mesi di matrimonio, l’indefinibile senso di repulsione per i suoi simili (…”I Wish I loved the Human Race”, disse Sir Walter Raleigh), e, infine, la seconda guerra mondiale. Dopo il ’45 Waugh depone gran parte dell’ironia che lo aveva contraddistinto. E dal completo disincanto nascono Brideshead Revisited (1945), The Loved One (1947), Love Among the Ruins (1953), ed infine la sua ultima grande opera: un trilogia, Sword of Honour (1952-1961).

Evelyn Waugh, ultimo snob (…”Il gentiluomo si distingue sia dall’artista che dall’aristocratico per la sua virtù. Ebbene, io sono un gentiluomo. E’ più forte di me: è una caratteristica innata”[4]), vaga, solitario individualista, tra le macerie e la polvere del passato nei giorni delle masse, dei voli intercontinentali, della televisione e dei blocchi contrapposti. “L’arte deve da conventuale farsi anacoretica” annunciava già nel 1942 il suo epigono, l’esteta Ambrose Silk, in Put Out More Flags. Come dargli torto? Divided we stand, united we fall. Waugh scopre l’unico rimedio al suo individualismo, unico conforto all’amarezza più profonda nella parole di padre Knox e nell’abbraccio salvifico e consolatore della Chiesa cattolica. Forse che anch’essa, come lui, non è esule e pellegrina, in Inghilterra ed in saecula seculorum? E solo in essa potrà trovare la carità, la comprensione e forse l’antidoto a quel mondo che solo le ultime luci della Swinging London celavano, ma che in Love Among The Ruins trova perfetto ritratto e compimento, un mondo dove l’unica soluzione sembra farsi eliminare a spese dello Stato assistenziale, mentre l’uomo non è che morto tra i morti e tra i morti dovrà trovare l’amore.

Ed ecco calcare le scene dell’ultimo melodramma un’insolita figura: Guy Crouchback, il protagonista di Sword of Honour. Inglese, maledettamente inglese e maledettamente cattolico, Guy, l’antieroe per eccellenza, è l’autoritratto più profondo del suo autore. Reduce di quasi quarant’anni di nulla e nulla più, del più metodico conformismo britannico e della Happy Valley, segnato da un matrimonio fallito, egli è un esule, in patria e nel ‘900. E’ cattolico, un discendente di quei dissidenti martirizzati sotto Elisabetta I, un nostalgico dei tempi in cui i gentiluomini di campagna guidavano crociate alla testa dei braccianti, innalzando vessilli sulle falci e sulle mietitrici, inneggiando al Re inebriati dal vino della Messa. Perfetto uomo senza qualità, malinconico ed inadeguato, Guy non ha trovato il suo posto nel mondo e nella storia, né mai lo troverà. Delicato ed insicuro, preferisce l’anonimato, la quiete del suo castello italiano, i sogni e il loro sempiterno infrangersi, cavalloni argentei tra gli scogli… Scoppia la guerra, l’evento tanto atteso, ed ormai egli sa che “adesso il nemico era uno, enorme, odioso, senza maschera. Era l’Età Moderna in armi. Qualunque fosse il risultato, c’era posto per lui in quella guerra”[5]: non combatterà né per l’Inghilterra né per il re, né contro Hitler e neppure contro Stalin. Semplicemente tenterà di ritrovare nella guerra contro il mondo così come era uscito dalle trincee, sé stesso, l’onore degli avi, l’identità perduta, ultimo rappresentante in armi del mondo che fu. Corre così dall’Inghilterra a Creta, dall’Africa ai Balcani, tra impettiti ufficiali e cospiratori, romanzieri, segretarie e diplomatici col monocolo, di avventura in avventura, l’una più rocambolesca dell’altra, impelagandosi tra la burocrazia militare, gli assurdi riti dei vecchi reggimenti, il nonsense d’ogni cosa, anche della morte… La morte svestita d’ogni pudore, la morte dell’eccentrico commilitone Apthorpe, ucciso dalla febbre africana e dal whisky; la scomparsa dell’ex moglie Virginia “proprio quando aveva finalmente la certezza dell’aldilà”; la farsa eroica, comica e macabra allo stesso tempo, del terribile guercio, il generale Ritchie-Hook, solo e alla carica di fronte ad un avamposto di ustascia nei Balcani. Eppure la sottile ironia di Waugh lascia infine trapelare ciò che v’è realmente nascosto tra quelle pagine d’un ironia forbita: la resa dell’uomo dinnanzi a sé stesso e dinnanzi alla storia, mentre ogni finalismo, ogni destino viene annullato e svuotato di significato. Non v’è onore in quella guerra, non v’è gloria, più nulla. Solo l’umile miseria umana di chi ormai non è più padrone che della propria coscienza, e forse neppure più di quella, poiché l’individuo nel mondo delle masse egemoni ed egemonizzate infine scompare. Posto di fronte a sé stesso, l’uomo è nudo, inerme, sconfitto. Di fronte al suo sguardo si rappresenta un dramma immane, una tragedia umana che esclude qualsiasi comprensione, qualsiasi pentimento o perdono. Non è qui, non è combattendo che l’anima troverà il suo riscatto: “ora quell’occasione si era dissolta (…), e meno di due anni più tardi il suo pellegrinaggio nella Terra Santa delle illusioni l’aveva portato in un mondo ambiguo, dove i preti erano spie, gli amici valorosi traditori e la patria trascinata scioccamente sulla via del disonore”.

Nella sua illusione d’una guerra antica, resta anch’egli complice dell’orrore, un orrore così grande da far perdere all’uomo ogni speranza in sé stesso. “C’è forse un posto su questa terra libero dal male?” dice l’ebrea Madame Kanyi, vittima sacrificale in un olocausto di popoli, all’antieroe, l’imperturbabile Crouchback: “A me sembra che ci fosse una volontà di guerra, un desiderio di morte, dovunque. Perfino gli uomini buoni pensavano che il loro onore privato potesse essere rivendicato per mezzo della guerra. Essi avrebbero voluto ribadire la loro virilità, uccidendosi e facendosi uccidere. Avrebbero potuto sopportare tutte le durezze in cambio e come punizione di essere stati pigri ed egoisti. Il pericolo giustificava i privilegi…”. Ed egli, infine: “Che Dio mi perdoni. Io ero uno di loro”[6].

Non v’è che una resa incondizionata: il mondo e il tempo hanno ripudiato l’umanità in rivolta ed essa ha sfregiato sé stessa. Orrore, bestialità, disfatta. Il declino è compiuto, la disfatta e completa. Il senso si è perso. E dinnanzi alla miseria, frivola o ad atroce che sia, non restano che il silenzio di colui ai cui non più è dato di comprendere, mentre, negli occhi stanchi dell’ultima alba, non si legge che una sola parola madre d’ogni fede: compassione.


[1] Introduzione di Giuseppe Scaraffia a Lady Margot, Guanda Editore, Parma, 2005.

[2] Claudio Magris, Gregor von Rezzori. L’uomo allo specchio, ne La morte di mio fratello Abele, Guanda Editore, Parma, 2014.

[3] Il titolo dell’edizione italiana è Lady Margot, vedi sopra.

[4] Lady Margot, Guanda Editore, Parma, 2005.

[5] Resa incondizionata, Guanda Editore, Parma, 2009.

[6] Ibid.

Niccolò Nobile

Niccolò Nobile su Barbadillo.it

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