Marò. La vergogna montiana, l’Italia di Mennea: dove è finita la destra dell’onore?

marò“Dignità voleva che questi nostri poveri marò tornassero in India rispettando la parola data perché pacta sunt servanda soprattutto per i soldati scelti. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone ci tornano invece sbertucciati, piegati dal fardello di un disastro diplomatico. Esposti alla gogna per colpa soprattutto di un ministro degli Esteri che ha cercato di costruire sulla loro fuga un futuro politico, ed eventualmente anche elettorale, a destra. E non stiamo parlando della destra dei valori e della patria, la destra dei tratti eroici, che so?, del duca d’Aosta o di Cesare Battisti o di Enrico Toti, ma della destra badogliana del “tutti a casa”. Il ministro Terzi e il suo sodale Di Paola, ministro della Difesa, – nientemeno un ammiraglio che ha studiato al Morosini! – hanno infatti trasformato questi due apprendisti eroi in una coppia di esodati, esponendoli adesso, con il ritorno obbligato, al pericolo vero, il pericolo peggiore per un soldato e per un governo: il disonore. Solo ora infatti il processo diventa a rischio, perché i nostri due “marines”, vale a dire il meglio delle nostre forze armate, non saranno più considerati come due fucilieri di Marina di un Paese amico, due militari in attesa di giudizio, ma come due prove sfacciate e schiaccianti non di omicidio ma di furbizia umiliata, i rappresentanti di un’Italia volgare e truffaldina, subito piegata però dalla forza di un brutto atto di rappresaglia. Sino a un mese fa i truffaldini sembravano gli indiani. Perché i due poveri pescatori morti forse non erano pescatori. Perché le acque in cui sono morti erano internazionali. E perché i nostri soldati si erano sempre comportati da soldati. E i soldati non sparano sui pescatori e, più in generale, sui lavoratori, in mare come in terra. E che fossero soldati lo avevano dimostrato non scappando subito dopo l’incidente, ma presentandosi alle autorità di polizia locali. E ancora, ottenuta e goduta la licenza per il Natale in patria, riconsegnandosi puntualmente ai loro giudici, benché sia controversa la legittimità del tribunale indiano. Adesso che invece tornano perché gli indiani hanno sequestrato il nostro ambasciatore, violando a loro volta le regole internazionali, i due soldati diventano davvero prigionieri, e non più della Giustizia indiana e dei suoi tribunali ma di un’arroganza da ritorsione. L’India che li accoglierà non è infatti la stessa India che diede loro il permesso di partire: è un’India che si è sporcata con un sequestro di persona che non ha precedenti nel mondo diplomatico civile e che l’Italia furbastra di Terzi e di Di Paola non sa più come affrontare se non con la resa, la cosiddetta calata di braghe” (Francesco Merlo – da “la Repubblica” del 22 marzo 2013).

Non si poteva descrivere meglio l’orgoglio di una intera nazione, ferito a morte dalla condotta ondivaga e vaniloquente del governo di sedicenti “tecnici”, che già tanta prova di sé aveva dato in materia di esodati e di tariffe professionali, due colpi esiziali per la sopravvivenza della middle class. L’ho scritto nei giorni scorsi, e l’eccellente articolo di Merlo mi fornisce l’occasione per ribadire quel che da tanti anni vado rimuginando. Questi ultimi venti anni hanno provocato la scomparsa della destra della Patria e dell’onore, alla quale è subentrata, quanto all’humus culturale più che in termini di rappresentanza politica, una cosiddetta “destra” avventurista, qualunquista, ignorante e innamorata del mito pagano della fortuna e del successo; indifferente ai valori (che non siano quelli azionari) e assolutamente refrattaria al bene comune assoluto, in qualsivoglia comunità civile, vale a dire la giustizia uguale per tutti. Gli studiosi dei prossimi decenni non potranno disattendere l’analisi di questa rivoluzione antropologica: dall’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte d’Appello di Genova, nel corso della quale il Procuratore Generale Francesco Coco evocava, ammirato, il suo antico omologo Joseph De Maistre, magistrato-ambasciatore-filosofo della Restaurazione, all’approvazione, corale e senza un accenno di rossore, di leggi delinquenziali, consolidatrici del privilegio giudiziario e dell’impunità del potente di turno. Paolo Borsellino usava dire (e c’era nelle sue parole l’eco di una famosa asserzione di José Antonio Primo de Rivera): amo Palermo perché non mi piace.

La permanenza al governo della valorosa équipe guidata dal disinteressato senatore a vita Mario Monti ha contribuito ad aumentare a dismisura l’amore, dissennato come è sempre l’amore vero, per questo mio sventurato Paese, l’Italia di Dante e del povero eroe degli stadi Pietro Mennea. Quell’Italia che amo più della mia famiglia, più del mio mestiere, più di me stesso.

Michele Mascolo

Michele Mascolo su Barbadillo.it

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