Caso Tortosa. Una lettura garantista: contro gli ultrà in divisa non serve il daspo

Il tweed di Tortosa

Negli ambienti delle curve, quando si vuole sottolineare un comportamento sopra le righe da parte delle forze dell’ordine, si usa l’espressione “ultrà in divisa”. Insomma, perfino chi riassume il proprio credo nell’acronimo Acab (All Cops Are Bastards) riconosce qualcosa di evidente: tu, che indossi una divisa, non puoi pensare né agire come me, nel bene o nel male.

È una verità elementare, eppure in questi anni abbiamo visto una lunga sequela di ultrà in divisa: Fabio Tortosa è solo l’ultimo dell’elenco e pure il meno colpevole. Sono ultrà in divisa i quattro artefici del pestaggio nei confronti di Federico Aldrovandi, tornati in servizio dopo la condanna definitiva. Sono ultrà in divisa i delegati del Sap che li hanno applauditi entusiasti durante il congresso nazionale del sindacato. Sono ultrà in divisa le guardie penitenziarie imputate nel caso Cucchi, che dopo l’assoluzione in primo grado pensarono bene di dedicare uno scanzonato gestaccio ai parenti del morto. E naturalmente sono ultrà in divisa quelli della Diaz e di Bolzaneto, a cominciare dai vari dirigenti raggiunti negli anni successivi da “severe promozioni”.

Ciò che più colpisce, di questi ultrà in divisa, è proprio la consonanza con alcuni dei valori che ispirano il mondo del tifo organizzato: anche loro si sentono depositari di un’etica tutta interna al gruppo, incomprensibile agli altri ma superiore alle leggi positive e ad ogni legame sociale. Tortosa parla di una verità “che solo io e i miei fratelli sappiamo” e già si capisce quanto questa sia inconoscibile agli occhi del mondo: “noi tifiamo noi”, come dicono quei reprobi delle curve. La differenza, però, è che gli ultrà sanno benissimo di stare “dalla parte del torto”, anzi lo rivendicano con orgoglio. Gli ultrà in divisa invece no, sono convinti che il discrimine tra il lecito e l’illecito stia sempre un passo oltre i loro scudi, anche quando lo Stato che rappresentano stabilisce il contrario.

Tortosa è solo uno dei tanti: uno che vota Pd, come il Volonté di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” votava socialista. Uno che magari è “figlio di poveri”, come recita una troppo inflazionata poesia di Pasolini: tanto provocatoria e coraggiosa da parte di un intellettuale comunista nel Sessantotto, quanto deprivata di senso in bocca ai Giovanardi e alle Santanchè del 2015.

Tortosa ha ragione: assurdo sospenderlo dal servizio per un tweet

E poi, diciamola tutta, Tortosa ha ragione nel dire che la sua sospensione dal servizio è spropositata. È una sanzione figlia di questi tempi virtuali che puniscono più di ogni altra colpa l’offesa ai simulacri, e che perciò ritengono più grave uno striscione di una sprangata. Se chi ammazza un ragazzino inerme – sia pure “per colpa” – può tornare a vestire la divisa, allora è perfino offensivo scoprire che il capo della polizia ritiene più importante un post su Facebook che una vita umana.

Cari “superiori”, siate garantisti e rispettosi del criterio di proporzionalità della pena. Siate, cioè, quello che Tortosa e i suoi fratelli non sono, quello che si vantano di non essere e quel che non sarebbero neanche fra “mille e mille volte”. Ma poi, un minuto dopo avergli revocato il daspo, fate seguire allo sventurato celerino un corso di etica ultrà: capirà da solo, si spera, perché quel codice di comportamento è incompatibile con qualsiasi divisa.

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Paolo Montero

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