Il caso. Se sarà la Nazionale degli oriundi, chiamiamola Italian TopPlayer Footbal Team

oriundiPer dirla alla Sorrentino, hanno tutti ragione. È vero, i tempi cambiano e non ha senso cercare di fermare l’orologio della storia. Le frontiere sono aperte per chiunque, dei colabrodo in pratica: e volete che si chiudano proprio per i nostri “cocchi” calciatori, simboli perfetti dei sogni proibiti di ogni italiano medio? E poi c’è la legge Bosman, l’Unione europea, la globalizzazione, la cittadinanza che ormai non si nega a nessuno… Insomma, a parte rare eccezioni, tra le quali spicca Roberto Mancini, è quasi un plebiscito per la convocazione di sempre più “oriundi” in Nazionale. Che poi Mancini, va detto, guidando una squadra che si chiama Internazionale e spesso scende in campo con dieci o undici giocatori stranieri, non sembra avere tutte le carte in regola per difendere a spada tratta l’italianità del football nostrano.

Insomma, dopo l’exploit di Mauro Camoranesi con Lippi (a metà del decennio scorso); e dopo i meno fortunati inserimenti di Amauri, Thiago Motta e Paletta nella selezione prandelliana presa poi a pallate in Brasile, ora è il turno degli oriundi targati Conte: l’italo-brasiliano Eder e l’italo-argentino Vazquez. E domani, chissà? Vista la facilità con cui i calciatori sanno scovare un prozio di Terni, un bisavolo di Caserta o un cugino acquisito discendente da un emigrato veneto, è facile pensare che la Nazionale del futuro sarà composta da nomi spagnoleggianti, brasileiri, africanofoni, arabizzati. Tutti orgogliosamente impegnati a cantare un inno fatto imparare a memoria dai procuratori, che grazie alla maglia azzurra potranno monetizzare il presunto amor di patria e la sicura quotazione internazionale dei propri pupilli.

Oltre a Mancini poche voci dissonanti, dicevamo. Una, autorevole, è quella di Gigi Garanzini, che ha sottolineato come riempire di oriundi la selezione italiana di rugby non è servita molto a far decollare né la squadra azzurra, né il campionato della palla ovale: «Le squadre di club possono far giocare qualsiasi numero di stranieri, comunitari e extracomunitari… Secondo me le Nazionali, proprio per distinguersi dalle squadre di club, dovrebbero essere riservate a chi, in quel Paese, ci è nato». Pareri minoritari, ahinoi. Quindi destinati a non invertire la tendenza.

Per cui mettiamoci il cuore in pace. Siamo destinati, in un futuro ormai prossimo, a vedere in campo una squadra che rispecchierà poco o niente pregi, difetti, facce e nomi della gens italica. E invece del vecchio accento ciociaro di Ciccio Graziani, della cadenza friulana di Zoff, dell’arguzia romanesca di Totti e dell’anglo-calabrese di Ringhio Gattuso, nelle interviste post-partita sentiremo parlare i “nostri” con cantilene carioca, espressioni gauche e gutturalismi nordafricani.

Pazienza. Però fra tante mutazioni che ci vengono imposte, una sarebbe particolarmente gradita: cambiate nome alla Nazionale. Chiamatela, chessò, Selezione All Stars del campionato italiano. Oppure Italian TopPlayer Footbal Team. O magari mettiamo il nome all’asta e appaltiamolo alla corporation multinazionale che pagherà di più. Ma Nazionale italiana non più, per favore. Quel nome, un po’ antico e polveroso ma ancora onorato, lasciamolo alle squadre di Vittorio Pozzo, di Valcareggi, di Bearzot, persino di Lippi, che pure ha il demerito di aver aperto il Vaso di Pandora. Quel nome va protetto dal telecalcio contemporaneo, come si fa con i panda e le stelle alpine.

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Giorgio Ballario

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