Libri. “I cani di paglia” e la decadenza europea: la lezione di Drieu a 70 anni dalla morte

pierre drieu la rochelle

I settant’anni della morte di Drieu su Barbadillo.it

«Il ruolo degli intellettuali, di un certo tipo di essi almeno, è di andare al di là dell’avvenimento, tentare sorti rischiose, sperimentare i percorsi della Storia. Se si sbagliano nell’immediato, non fa niente. Hanno assicurato un compito necessario, essere altrove rispetto alla massa (…) Non sono un patriota ordinario, un gretto nazionalista. Sono un francese, sono un europeo. Anche voi lo siete, consapevolmente o meno. Ma abbiamo giocato, ho perduto. Esigo la morte».

Settant’anni non cancellano un esempio. E le parole con cui Drieu La Rochelle, nel suo Diario, consegna al mondo la sua testimonianza di dignità, verità e responsabilità poco prima di togliersi la vita, tra il 15 e il 16 marzo 1945, sono un viatico eterno, che fugge il rincorrersi affannoso dei calendari. L’ultimo, ennesimo omaggio all’artista francese che come pochi seppe affondare il coltello nelle carni vive di un Occidente che aveva appena oltrepassato il proprio tramonto, arriva dalle edizioni di Ar, attraverso una nuova edizione, curata e tradotta da Franco Giorgio Freda, de “I cani di paglia”.

Romanzo di una fine, il libro deve il titolo a una citazione di Lao-tsu:

«Il Cielo e la Terra non sono indulgenti o benevoli al modo degli uomini: essi considerano tutti gli esseri alla stregua di cani di paglia da impiegare nei sacrifici».

A una trama scarna, sullo sfondo della Francia di Vichy, corrisponde una profondità filosofica e speculativa ch’è merce rara tra i banconi della letteratura da un tanto al chilo. Come l’impolitico Thomas Mann nel suo “romanzo spirituale di un’epoca”, Doktor Faustus, Drieu esemplifica correnti di pensiero incarnate in tipi umani: “I cani di paglia” risponde – pur nella differenza significativa di prospettiva e contesto – a una medesima esigenza enciclopedica: raccontare le diverse figure umane, dal collaborazionista al comunista, dal liberale al gollista, che si accapigliano sulle spoglie di una Francia «perseguitata, assalita, che si straziava le viscere» e «traboccante di gente che spiava per conto dell’uno o dell’altro». Figurine stinte della decadenza nell’album di una stagione tragica.

L’alter ego dello scrittore è Constant, il “monaco venturiero”, come lo definisce, con la consueta immediatezza icastica Freda nella nota del curatore che apre il volume: è lo stesso Drieu ad avvertire, nella prefazione, che Constant «non è l’autore ma una parte». È un intellettuale disilluso, che «in mezzo ai borghesi si sentiva sempre un estraneo» e che fa da spettatore-narratore della decadenza di un Occidente armato di «un suo immenso distacco di uomo che tutto aveva posseduto su questo pianeta e di tutto era saturo». Un esteta intriso di aristocratico disprezzo, che passa quelle che sa essere le sue ultime giornate nel mondo scisso tra la volgarità di una quotidiana commedia umana («un eremita planetario resta sempre degno di figurare in uno spettacolo di burattini di borgata») e le vette delle spiritualità orientale e delle speculazioni sulla figura del Giuda cristiano, tenuto per mano dalla guida salda di Nietzsche, «il primo decadente lucido e consapevole in Europa», incontrato quattordicenne sul banco di un libraio, quando, pur capendo poco, intuiva che «gli era capitato di riconoscersi all’istante nella medesima razza dell’autore».

Drieu canta la decadenza affondando i colpi senza riguardi, nemmeno verso se stesso. La storia che gli si dipana intorno trova Constant osservatore disincantato, perché ormai abituato nei confronti degli altri a restare di lato, guardando le maschere affannarsi a recitare ognuna il proprio pirandelliano copione. Drieu non tace sull’avvilente palude – concetto che ritorna di continuo, nei pensieri di Constant – che circonda un’Europa stritolata dai giganti russo e americano e destinata a vedere sconfitta ogni aspirazione, fascista, gollista o comunista che sia. Alla palude Constant preferisce il deserto, «luoghi del mondo in cui si era trovato meglio» perché «il deserto non è vuoto, porta cespugli che sono i segni dell’ascetismo».

L’unico figurante che lo strappa al disincanto è Cormont, il giovane Don Chisciotte espressione della “Francia soltanto”, testimone della crisi delle sovranità schiacciate dagli internazionalismi d’ogni colore, che «assumeva in proprio l’onta e la responsabilità, ma le fondava nell’inestinguibile spiritualismo del vero francese». Ma il giudizio sulla politica è improntato a quel pessimismo attivo che, a sentire il suo amico-nemico Malraux, è una delle cifre caratteristiche del suo essere fascista: “Un uomo, allo stesso tempo, pessimista e attivo, è fascista. «Sento disprezzo per quelli che non la fanno – dice Constant a proposito della politica -, ho compassione di quelli che la fanno».

Non c’è spazio per le connivenze, non c’è alternativa se non la fedeltà a se stessi come principio di dignità: tra le macerie si può restare saldi ma a patto di evitare infingimenti. Essere crudeli e netti, come affilati rasoi, nella continua ricerca di un senso dell’esistenza che non può avere il placido volto della certezza ma la faccia tesa di una verità mai acquisita ma continuamente inseguita nel sacrificio. La lezione del Drieu de “I cani di paglia”, a ben vedere, è tutta qui: l’intransigenza verso se stessi e le comodità di pensiero, l’eresia di chi preferisce il rogo alle ortodossie di tutte le chiese.

Quando si sfiora il senso ma si capisce di non poterlo afferrare, non resta che la morte per Drieu, come atto estetico dal valore esemplare. E lungo tutta la «favola» – come la definisce lo stesso artista francese nella prefazione – si dipana il filo di un’attrazione per la grande falciatrice che non è solo rinuncia dello stoico o disprezzo di un presente decadente ma gesto di rivolta contro la decadenza della Francia e dell’Europa e sentiero verso la Liberazione – non certo quella partigiana – intesa come disciplina ascetica. «Ebbene, bisogna davvero che raggiunga la mia morte. Voglio essere io il padrone della mia morte; dunque occorre sceglierla e compierla presto. Cinquant’anni, non è poi troppo presto».

Parole e brividi, perché venti non affidati solo alla pagina ma alla carne. Pochi mesi dopo, settant’anni da oggi, quell’esteta con una perenne sigaretta all’angolo della bocca che sognò un socialismo fascista, si tolse la vita come estremo atto di dignità, lasciando ai posteri l’amaro sapore di una verità così ferocemente responsabile da fare giusto scempio delle proprie contraddizioni, oltre che di quelle del mondo. Il bagliore cristallino di un gioco dal quale non ci si può sottrarre, pena l’unica, reale sconfitta.

*Pierre Drieu La Rochelle, “I cani di paglia”. Edizioni di Ar, 2015, Euro 15

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