StorieDiRugby. L’Italia vince e Orquera rivuole la maglia azzurra

Rugby Parma 01_03_2015 (185)La vittoria sulla Scozia è stata un buon viatico per raggiungere la meta obbligata: sotterrare il cucchiaio di legno, ovvero l’insegna che contraddistingue la Nazionale ultima classificatasi nel Sei Nazioni. ItalRugby ha superato il bivio di una lunga stagione buia, che annoverava una sola vittoria in 10 gare.

A Parma, nel tempio delle Zebre, abbiamo incontrato Luciano Orquera, mediano d’apertura, che spera di poter riappropriarsi della maglia azzurra soprattutto per i Mondiali in Inghilterra a settembre. Nel 2004 l’allora Ct John Kirwan lo fece esordire contro il Canada, nel primo incontro del Sei Nazioni 2013 fu protagonista della vittoria per 23-18 contro la Francia guadagnandosi il premio di miglior giocatore in campo.

Orquera è nato nel 1981 a Cordoba in Argentina, ha iniziato a giocare a rugby ad appena quattro anni, trascinato dal fratello e dagli amici: nel quartiere di Bajo Palermo avevano tutti addosso il sacro fuoco ovale. Non ha avuto un vero idolo, per capire come deve giocare un numero 10 ha preso un po’ di qua e un po’ di là.

“Wilkinson, Contepomi, Carlos Spencer: non esiste un solo modo di essere apertura. Io sono piccolo, non mi tiro indietro quando si tratta di placcare, anzi; ma certo gli impatti li sento più io di altri. Quello che conta però nel mio ruolo è saper far girare la squadra e mantenere la mente fredda al momento di calciare, nei momenti chiave del match. È quello che ti fa fare il salto di qualità” confessa. Equilibrio, insomma. E molta applicazione.

“Da bambino mi piaceva anche il calcio, anzi per un anno ho piantato lì con il rugby per fare solo il centrocampista – racconta -. Ero bravo, un po’ dribblomane magari, con il mito di Maradona e Riquelme. Non mi piaceva tirare le punizioni quando c’era il portiere, invece a piazzare fra i pali, con gli amici, stavo delle ore tutti i pomeriggi. Ecco, forse è un po’ questo che manca al rugby in Italia, la passione per un certo tipo di allenamento, il modo di vivere il rugby”.

Ed ancora: “In Argentina è vero che il rugby è uno sport da rugby, ma ci sono anche tante squadre fatte di ragazzi che hanno un livello sociale ed economico medio e basso. In Italia sono arrivato nel 2002, mi sono trovato benissimo a Mirano, poi a Padova, ma quando sono andato in Francia, ad Auch e poi a Brive, ho trovato una nazione dove il rugby è una religione diffusa, sia nella città che ha una squadra in Top-14 sia in quella che al massimo gioca fra i dilettanti. In Italia il rugby è seguito a Treviso e in altre tre o quattro posti. È vero che l’entusiasmo è molto cresciuto, che riempire l’Olimpico è entusiasmante, ti fa sentire sullo stesso livello delle nazioni che giocano in stadi come Murrayfield, Twickenham o il Millennium di Cardiff. Però i risultati da anni sono sempre gli stessi, non nascondiamocelo”. Serve un cambio di passo, un apriscatole, un’idea. “La Pro 12 è importante, rispetto a prima fa vedo giovani in grado di arrivare più in fretta a livello internazionale. C’è per esempio Filippo Cristiano, che promette bene da noi alle Zebre, sta crescendo. Serve tempo, anche se la Pro 12 è un acceleratore importante”.

“Io sono italiano da parte materna, i genitori di mia madre Ana Lisa venivano dalla provincia di Novara. Non posso dire di non essere argentino, ma in Italia sono a arrivato a 19 anni e mi sono trovato sempre bene – conclude Orquera – . Anche la Francia mi ha aiutato a crescere come persona, diciamo che sono un mix. Ma oggi chiedo al Ct Brunel una nuova maglia azzurra. La voglio fortemente!”.

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Mario Bocchio

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