L’invadenza di smartphone e social network non si ferma nemmeno tra le lenzuola

smartLoro due bevono qualche bicchiere di vino, è sera tardi e sono allegri, hanno visto quella serie americana sui tradimenti, lui le fa qualche complimento, lei ride, vanno a letto. Lei controlla la sua timeline di Twitter prima di mettere il telefono in carica sul comodino, perché lo usa come sveglia, e perché di notte controlla che ora è (e se c’è qualcuno ancora sveglio su Twitter, qualche foto su Facebook, qualche email di insonni o le ricevute di Amazon, la risposta alladomanda di ammissione per la scuola del figlio). Lui le dice: ma che cosa stai facendo, sai che non lo sopporto, e comincia una discussione sulla differenza fra l’andare a letto e l’andare a dormire, probabilmente terminata in un offeso silenzio, e una linea immaginaria tracciata nell’esatta metà del letto, un muro di Berlino di ostilità e di onde magnetiche. Scrive Kathryn Flett sul Sunday Times che il cellulare è una dipendenza, e che suo marito alla fine ha imposto una regola: niente computer, tablet, smartphone in camera da letto e sul tavolo da pranzo. Niente bombardamenti esterni mentre si fa colazione: se la bambina chiede il latte coi biscotti nella tazza blu, cercare di impiegare quei due minuti senza altre interazioni, senza guardare Facebook. “Devo controllare una cosa” è una frase insopportabile, così come sono insopportabili quelli che pranzano in compagnia con il telefono sul tavolo, ed è paragonabile all’alibi stizzito: “Sto lavorando”: lo dico spesso a mio figlio piccolo quando mi fa mille domande e cerca di strapparmi il telefono di mano, e non sto davvero lavorando, sto guardando che si dice nel mondo del cyber-ego, controllo se ci sono anch’io, faccio la spesa online, sollecito la tizia della casa delle vacanze, leggo le email pregando che non mi sia arrivata (ma arriva sempre) quella di sollecito su qualcosa che non ho ancora fatto.

Sono connessa, in modo pigro ma pur sempre nevrotico e, come scrive il Sunday Times, ho la capacità di concentrazione di un pesce rosso. Due, tre minuti di seguito, poi l’occhiata (quasi mai necessaria) di controllo al mondo, dove mondo significa anche nuovi follower, foto di gatti, commenti di qualcuno alle parole di un altro, spam nella posta. Oppure la dedizione percepita ai figli, ma con fotocamera pronta (e fammi un sorriso, dai, non importa se quel pony ti terrorizza, no non stai cadendo, e non piangere che ti metto su Facebook). All’inizio è una specie di piccola pausa dal mondo reale, dalle persone in carne e ossa, un giardino pubblico ma segreto, poi diventa una vita parallela, che sembra non interferisca per niente con quell’altra, quella vera (se guardo un film e intanto chatto in silenzio e senza vibrazioni, e controllo se qualcuno ha urgente bisogno, alle undici e mezza di sera di sabato, di comunicare il suo pensiero sui grillini, che problema c’è?), infine i due piani si intrecciano, si confondono, ci si trasforma velocemente in quel pesce rosso che gira in tondo nella sua boccia. Me ne sono accorta non per capacità di autocritica, ma perché non ho ancora avuto il coraggio di portare mio figlio, quasi quattro anni, al cinema: so che non resisterebbe, non si lascerebbe incantare nemmeno dal cartone animato dei suoi sogni, comincerebbe a saltare sulle poltroncine. Si concentra a pezzetti, seguendo i ritmi dei video di YouTube, con la possibilità di cambiarli, fermare la Pimpa e guardare un po’ di macchinine che si trasformano in robot, disegnare una casa, colorare un serpente. E’ il buon esempio, è ciò che facciamo noi tutto il giorno, con le nostre tavolette in mano piene di ditate, e le occhiaie da dipendenza: siamo lì, ma non ci siamo del tutto, e comunque non a lungo. Innamorati di un tic nervoso: la nostra vita connessa.

*da Il Foglio

Annalena Benini

Annalena Benini su Barbadillo.it

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