Vi sono figure che attraversano la storia così come il lampo squarcia la tempesta: non si tratta che di un istante, e non a tutti è dato vedere il suo bagliore, eppure la forza, la potenza che emana è grande, cresce fino a perdersi nella notte. Sono questi gli uomini che entrano nel mito e nella leggenda. Il mito… Noi, piccoli uomini del XXI secolo, che ne sappiamo dei miti? Certo, coltiviamo i nostri idoli, le creature dell’inconscio collettivo, ma abbiamo dimenticato i miti. Essi, per definizione, superano la realtà senza travalicarla: ne sono la proiezione nell’eternità fino a trascendere la storia. Sopravvivevano nei racconti dei vecchi, nei riti ancestrali, in liturgie di mirra ed incenso. Davano forza ai cuori, smuovevano popoli e montagne emanando un potenziale quasi inesprimibile, ineffabile agli occhi dei profani.
Il profumo del sacro incarnato.
E’ l’alba, a Novonikolajevsk. Una fredda alba di settembre. Il sole è appena sorto sulla steppa, una luce tenue penetra a fatica tra le fronde degli alberi. E’ l’alba. I lupi si sono appena ritirati nella foresta, resta in una radura la carcassa putrida di un alce, già rivestita da un gelido manto di brina. La brina copre ogni cosa nella steppa: la terra antica, i sentieri, la ferrovia… E riluce all’alba di un bagliore gelido e sinistro.
E’ l’alba, e la città è deserta, immersa nel silenzio. Solo cinque soldati, stanchi, con i fucili e la stella rossa sul colbacco avanzano, in ordine, lentamente. Conducono con loro un uomo a capo scoperto dai lineamenti pallidi e il volto emaciato “come quello delle antiche icone bizantine”[1], adornato da baffi spioventi, radi capelli rossicci, cortissimi, e piccoli occhi azzurri che rilucono di una luce fievole, quasi spenta, gelida come il sole di settembre nella steppa. Alto, asciutto, ricorda un asceta: solo il pastrano grigio dei soldati dello Zar rivela il suo passato di guerriero. Un monaco guerriero.
Sono soli: il guerriero e i cinque soldati. Essi lo scortano, ma non hanno bisogno di usare la forza, neppure lo hanno avvinto coi lacci. Egli non trascina i piedi, non protesta, ma nemmeno marcia: sa quanto accadrà non appena le ultime case dai tetti rossi ed aguzzi saranno scomparse dietro gli abeti. No, non protesta, tutto si svolge nel silenzio, come in un rito antichissimo. Forse solo un velo di malinconia solca l’azzurro degli occhi esausti… Eccoli: Sono giunti al limitare della taiga. Non c’è bisogno di ordini, né di spiegazioni. Il prigioniero ha lasciato cadere a terra il pastrano; la sua figura eretta, immobile, si staglia lungo il sentiero. Non si fa il segno della croce, il suo ultimo pensiero non è per il signore della terra, lo Zar, né per quello delle anime. I suoi dei sono altri, perduti, spettri che da secoli si aggirano sui monti, e per santuari dimenticati dagli uomini, per rovine di un tempo ormai trascorso. Alza gli occhi al cielo: ecco un falco, il falco della steppa, i cui occhi rapaci dominano l’orizzonte… Il guerriero abbassa le palpebre, i fucili crepitano… ed il silenzio torna a regnare.
Così finì colui che passò alla storia come il barone Roman Fëdorovič von Ungern-Sternberg. Era il 1921.
Egli nacque forse a Graz, in terra d’Austria, o forse in Estonia, sull’isola di Dagö, oggi Hiiumaa. Era d’antica stirpe, il barone Roman. La leggenda lo vuole discendente degli Unni, o di un figlio di Gengis Khan i cui discendenti lasciarono la terra magiara, dove si erano stabiliti, per le foreste d’ambra del Baltico. Laddove il racconto si fonde con la storia, sappiamo che un suo avo, tale Johannes dictus de Ungaria giunse nel XIII secolo in Semigallia per mettersi al servizio del vescovo di Riga; da allora gli Ungern furono cavalieri teutonici, predoni, corsari, iniziati all’alchimia. Vollero gli dei o volle il fato che Roman, questo figlio dell’orda, compisse il suo destino nelle terre d’Oriente, ricongiungendosi nell’estremo mattino all’antico ceppo dal quale discendeva.
Ad ovest i vecchi ordinamenti, ormai deboli, logori, squallide ombre di ciò che erano stati, cadevano; lo Zar era morto, e uomini nuovi prendevano tra le loro mani i destini della Russia. Così Ungern volse lo sguardo alla steppa, laddove “lo spazio diventa alla fine tempo, per cui non esiste più vicino e lontano, passato o futuro, ma solo un presente infinito”, e comprese: “è ancora tutto un fluire e rifluire nell’aria, un tremolio sopra l’erba della steppa e le piante odorose, sopra i deserti di pietra gialla e di sole azzurro, un che d’invisibile, un aleggiare delle migrazioni di dèi e di uomini. Perché ogni cosa viene alla luce in Oriente, e si compie in Occidente”[3].
Sangue, morte, distruzione. Non v’era pietà né per i vinti né per i traditori. Il barone cavalcava alla testa dell’armata inseguendo il suo folle sogno e la profezia del regno venturo. Al caos opponeva il caos, alla violenza, violenza. Invincibile, un’idea sacra e al contempo un impeto d’estremo nichilismo guidavano le sue azioni, quasi che forze superiori, sopite da secoli nelle profondità dell’Asia si fossero risvegliate. Prese d’assalto Urga, la città santa, e i suoi guerrieri scalarono le mura millenarie; liberò Bogdo Khan, il Buddha Vivente, e ne ristabilì la teocrazia, mentre il Dalai Lama lo dichiarò emanazione di Mahakala, il Grande Nero. Egli era il dio della guerra, mentre il Re del Mondo, forza misteriosa, tesseva la storia dalle viscere della terra: il ciclo giungeva al termine. Ungern Khan fece appena in tempo a narrare delle sue vicende ad un giovane ingegnere polacco in fuga dalla Siberia, Ferdinand Ossendowski, che le raccolse nel celebre Bestie, Uomini, Dei: il vento cominciò a cambiare, ed egli impartì l’ordine apparentemente assurdo di compiere la conversione verso Ovest, indi verso Sud, avendo come meta gli Altai e la Zungaria. Probabilmente voleva raggiungere la “fortezza spirituale tibetana” e ricongiungersi col principio d’ogni cosa, il Re del Mondo, ma egli non vi giunse mai. Abbandonato dai signori della guerra giapponesi, dei quali nei fatti non era stato che l’ignara pedina, tradito dai suoi ufficiali, fu consegnato al generale Blücher. Il 15 settembre 1921, dopo aver ingoiato la sua croce di San Giorgio, il barone Ungern affrontò il plotone d’esecuzione.
Ad Urga i vecchi, bambini di allora, ricordano le sue gesta: se alzeranno gli occhi e fisseranno l’aurora del mattino, saprete che, con la sua armata a cavallo, l’ultimo dio della guerra solca i cieli della steppa. Il barone vive ancora.
[1] Ferdinand A. Ossendowski, Bestie, Uomini, Dei, Edizioni Mediterranee, Roma, 2000.
[2] Pio Filippani Ronconi, Il barone Román Fiodórovic von Ungern-Sternberg, Arianna Editrice, 2007.
[3] Alexander Lernet-Holenia, L’uomo col cappello, Adelphi, Milano, 1994.
[4] Cfr. Filippani Ronconi, Il barone Román Fiodórovic von Ungern-Sternberg.
[5] Hugo Pratt, Corte sconta detta arcana, Mondadori, Milano, 2009.