Cinema. “Fascistelli” e l’immaginario nonconforme dei tanti Vittorio Brasile

fascistelliEsiste una regola fondamentale della narrativa fantastica: parla di te, anche se, apparentemente, parla di tutt’altro. E’ la meraviglia nascosta nell’arte: sussurrarti, tra le pieghe di una storia diversa per tempi, per luoghi, per situazioni, che quello, in fondo, sei tu. Sei tu che cadi ai corni di Hattin, sei tu che preghi a San Galgano e sei tu che baci la bella castellana senza misericordia. Per questo, anche per questo, “Fascistelli” è un film da vedere e su cui riflettere: perché io sono Vittorio Brasile, perché i miei amici sono Vittorio Brasile. Quelli che ci sono ancora e quelli che non ci sono più. E’ un piccolo film “Fascistelli”: girato con pochi soldi e molte idee, in un universo minuscolo, tra Civitella e Chieti. Scandito dall’aprirsi e chiudersi degli sportelli di un autobus, da camminate tra muri scialbati e vicoli stretti: definito e racchiuso dai confini di un piccolo paese, ai piedi della Maiella, che è grande come un intero mondo. In questo cosmo sospeso fuori dal tempo, vivono le maschere di Angelucci Marino: figure tragicomiche che sembrano l’affresco di un Paese molto più grande, che si chiama Italia. In questo panorama di estrema provincia, dalle ombre squadrate dal sole bianco del sud e dalle notti sudate e gonfie di profumi, nasce, vive e muore il sogno che avevamo tutti noi, fascistelli di un tempo che fu: un sogno di gloria e di libertà e di amicizia. Un sogno morto ammazzato, come Luca, il cugino del protagonista, caduto sul lavoro, ostaggio di un sistema immondo di scambi di favori. Il nostro sogno lo hanno ammazzato i mille e mille Fendente che abbiamo trovato lungo il cammino: i piccoli e grandi ras che pensavano di aver capito tutto, di dominare il gioco. Invece, il gioco li ha tritati: ed una comunità straordinaria è andata in pezzi. Questo, in definitiva, è il senso di “Fascistelli”: la storia di una purezza consumata inutilmente. La recitazione degli attori richiama il teatro, più che il cinema neorealista, cui sembrerebbero fare riferimento certi scorci, certe inquadrature: sembra un film che sia stato girato in un teatro greco. E del teatro greco questo lavoro di Angelucci Marino ha l’immobilità dei personaggi, simili a caratteri pietrificati: solo il protagonista si muove, alla ricerca di sé e della propria via. Così, “Fascistelli” è la metafora di un disperato tentativo di essere, anziché esistere: la storia di un ragazzino che crede di aver trovato, in una fede, la chiave del proprio essere uomo libero, e onesto, e bello. Proprio come noi lo credevamo: noi non volevamo una dittatura. Mussolini era un punto di riferimento molto meno forte di Codreanu o di Fabrizio de Andrè. Noi volevamo la bellezza e, come tutti, la felicità: un poco di felicità. E la libertà di essere noi stessi: e che nessuno potesse imporci il silenzio, se volevamo cantare o gridare. In fondo, il nostro fascismo era molto poco fascista: oppure veramente fascista, a seconda di come la si intenda. Così, Vittorio Brasile ci rappresenta in pieno: diverso in tutto, eppure identico a noi. Per questo motivo, il sorriso che suscitano il sindaco democristiano, il federale, le tante caricature grottesche di questa politica da Strapaese, ci lasciano un fondo di amaro in bocca: perché le abbiamo ben conosciute le jene, abbiamo ben visto le parole mutarsi in bugie. “Fascistelli” è l’ironica, delicata, ingenua rappresentazione di una tragedia collettiva: la marcia funebre per una marionetta che era la nostra ragione più vera, le nostre fedi più antiche. Un film imperfetto “Fascistelli”: eppure non aggiungerei un’inquadratura, non cambierei una battuta. Perché è stata la storia, la nostra storia, ad essere imperfetta: imperfettamente essa va raccontata. Per la nostra malinconia e per la vergogna incancellabile di quei politicanti che hanno venduto un sogno in cambio del potere. Un film da vedere, infine: per chi ci si riconoscerà e per chi non sa o non ha capito nulla di quella gente, di quella storia, di quelle vite. Poi, dopo tutta la satira, dopo il grottesco e dopo il caustico, dopo la storia comune e dopo quella individuale. Dopo tutto, risuona la voce un po’ roca di Marcello: Nanni è partito. E con lui è partito un po’ del nostro cuore. E sappiamo che non tornerà. Mai più”.

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Marco Cimmino

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