Uno degli scritti chiave per comprendere la temperie culturale e spirituale del Novecento europeo è senza dubbio La Nausea di Jean Paul Sartre. L’opera, in forma di diario, è strutturata in modo tale da presentare una escalation di avvenimenti che conducono il
Ma l’infondatezza dell’esistenza, il de trop per utilizzare un’espressione cara al Sartre, quell’oscuro sentimento di un assurdo “esser gettati” in un giuoco senza senso – in quanto come ben osservò l’Heidegger, ogni causa dell’esistenza si verrebbe irrimediabilmente a trovare anch’essa esistente, dunque infondata – se in Occidente ha potuto condurre a conclusioni di tipo nichilistico ed a vere e proprie forme di alienazione, in Oriente costituisce invece il sostrato esistenziale della dottrina buddhista della vacuità. Del resto come affermava il patriarca Nagarjuna: «La vacuità male intesa rovina l’uomo ottuso così come un serpente male afferrato o una formula magica mal pronunciata».
È lo stesso Heidegger ad aver intuito nell’Occidente moderno ciò che la tradizione spirituale indiana insegna da millenni, la concezione dell’esistenza intesa come samsara, ossia come cieca ed irrazionale immedesimazione, sorta di ignoranza metafisica (avidyā), che il filosofo tedesco ha chiamato oblio dell’essere, ossia del fatto d’essere. Nel Buddhismo si parla di risveglio (Buddha non altro significa che lo “svegliato”) mentre Heidegger parla di “Sprung”, “salto” oltre lo scorrere del pensiero concettuale, che si concretizza nell’incapacitante stupore per il fatto d’essere piuttosto che non essere, un salto questo che avviene improvvisamente, e che porta a vedere il mondo e se stessi come se li si vedesse per la prima volta. Tali le due “regioni” dell’esistenza: samsara e nirvana, mondo del divenire e mondo dell’essere. Uno costituente l’aspetto relativo della realtà, l’altro quello assoluto. Così si da conto di questi grandi poli dell’esistenza in una celebre poesia zen:
Fin dal principio
tutte le cose (i dharma) sono in sé silenziose e vuote,
ma quando viene la primavera e centinaia di fiori sbocciano
il rigògolo giallo canta sul salice…
Non altra cosa si professò nella tradizione occidentale circa la “dottrina delle due nature” quando si concepì la nascita secondo l’una e secondo l’altra, come di un passaggio da un mondo “demonico”, ad un “sovramondo” (uperkosmìa). D’altro non scrisse
Ma esperienze del genere, purtroppo, in Occidente (soprattutto al giorno d’oggi, quando spesso vengono incomprese e scambiate per banali attacchi di panico!) non sono state prese in considerazione sino al punto da dar vita ad una tradizione che si occupasse di tramandare la loro trasmissione, come invece è accaduto in Oriente con l’istituzione di āryasaṅgha (lett. “comunità dei nobili”) intesi come comunità dei “risvegliati”. Sotto questo punto di vista, tuttavia, in Italia c’è da riconoscere la meritoria ed ormai consolidata realtà del Centro Studi “A.S.I.A.” (Associazione Spazio Interiore Ambiente) presieduta dal filosofo e maestro zen Franco Bertossa, che da anni ormai si prodiga nel coniugare la ricerca di senso sollevata dalla cultura filosofica occidentale contemporanea con la millenaria tradizione spirituale buddhista. Chissà che il “grande dubbio” dell’Occidente (Un famoso detto zen vuole che “A un grande dubbio consegue una grande illuminazione”) non rappresenti il terreno fertile da cui germoglierà il nobile fior di loto del Dharma.