Chi cerca storielle mirabolanti, superscoop a scoppio ritardato resterà deluso. I cacciatori di gossip andranno in bianco. Non è un libro qualunque, questo. Zoff è fedele a se stesso e non si tradisce, mai. E’ un inattuale, fortemente ancorato alla terra, quella della sua Mariano del Friuli dove è nato, dove è cresciuto con papà Mario, mamma Anna e la severa nonna Adelaide, all’ombra del ritratto-reliquia di Cecco Beppe. Là dove ha iniziato a lottare come un forsennato per imporsi, tra amici devoti e allenatori che non credevano in lui. In quell’angolo di Italia rurale e testarda, dove lo chiamavano “cagatina di mosca” per via delle lentiggini che gli incorniciavano il viso di ragazzetto mingherlino, anche troppo, che quasi non riusciva a crescere.
Dino Zoff racconta la sua parabola di calciatore, dalla Marianese fino alla conquista del Mundial ’82. Racconta anche la sua parabola da allenatore, dalla Juventus fino alla Nazionale, all’Europeo del 2000 sfumato nei quattro minuti di recupero contro la Francia di Zidane e Wiltord. La narrazione c’è, ma tutto, a primo acchitto, sembra riportato in modo quasi cronachistico. Dagli anni di Mantova a quelli di Napoli fino alla Juventus, il rapporto con i grandi del calcio, da Omar Sivori a Gianni Agnelli, le lunghe stagioni della Nazionale (a cui dedica un intero, lunghissimo, capitolo intitolato “Azzurro destino” chiarissimo omaggio all’amico Giovanni Arpino che lo santificò, San Dino, nel celeberrimo “Azzurro tenebra”), la rivalità che per oltre un decennio ha spaccato il calcio italiano: chi è più forte Zoff o Albertosi? Chi è il portiere migliore, chi predilige l’efficacia e il lavoro o quello che indulge all’ebbrezza del volo plastico, dell’estro, anche quando non ce n’è bisogno? Il dibattito è ancora aperto ma Zoff lo vuol chiudere una volta per tutte: il migliore ero io.
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Zoff è un inattuale, dicevamo. Un uomo che, dietro la maschera del silenzio, ha vissuto drammi e contraddizioni sempre a testa alta. E’ un Innamorato del calcio che non riesce ad accettare il fatto che questo abbia venduto la sua anima, che da sport si sia lentamente trasformato in uno spettacolo. E la differenza tra i due concetti c’è, eccome. Si spalanca come un abisso tra la “tradizione” e i cantori del “progresso” che spesso, come Maifredi alla Juve, non è che debba essere per forza migliore. Calcio champagne, dicevano quando dovevano giubilarlo nel 1990. Altro che champagne, era vinello da supermercato, dice oggi (giustamente) Dino Zoff.
Lo stesso Zoff che non ci riuscì proprio, dopo la beffa maledetta di Rotterdam, a incassare le improvvide esternazioni di Silvio Berlusconi che addirittura giunse a definirlo “indegno”. Lui, “operaio specializzato del pallone”, non si genuflesse ai giochi della politica nemmeno dopo le sue dimissioni. non accettò giochi di potere e sorrisi di circostanza. Nemmeno candidature politiche di testimonianza. E, piano piano, è stato estromesso da tutto e da tutti. Zoff è l’ultimo uomo verticale del calcio italiano e i saggi veri, quelli che devono render conto solo alla loro coscienza e alle generazioni che verranno, non possono essere simpatici a nessuno. Mai.
*Dino Zoff “Dura solo un attimo la gloria”, 170 pp, Mondadori