Libri. “Da Fini a Fini. La trasformazione del Msi in An 1987-1995”: il saggio di Ungari

fini-almirantePubblichiamo un estratto del saggio di Andrea Ungari “Da Fini a Fini. La trasformazione del Movimento sociale italiano in Alleanza nazionale 1987-1995″, pubblicato dall’editore Rubbettino nel volume “Due Repubbliche. Politiche e istituzioni in Italia dal delitto Moro e Berlusconi” curato dallo stesso Ungari (Luiss) con lo storico Marco Gervasoni dell’Università del Molise. mdf

Da Fini a Fini

La riflessione sulle vicissitudini della destra italiana erede del Movimento sociale italiano (Msi), prima, e di Alleanza nazionale (An), poi, è ritornata d’attualità dopo le consultazioni elettorali del 2013 che hanno visto drasticamente ridotta la rappresentanza politica di molti esponenti appartenuti/legati a quell’esperienza. Questo complessivo ridimensionamento di un’area che un tempo si riferiva al neofascismo italiano, ha portato a riflettere da un lato sulla complessità e sull’eterogeneità di un mondo, quello neofascista appunto, difficilmente riducibile ad unum, dall’altro sulle strategie messe in campo da Gianfranco Fini che ha condotto la transizione dal Msi ad An e che ha gestito la vita di An fino alla sua fusione con il Popolo della Libertà (Pdl), giungendo, infine, alla disastrosa conclusione, per ora, della sua esperienza politica con il fallimento del suo movimento Futuro e Libertà (Fli). A ben vedere, dopo circa venti anni di gestione finiana del patrimonio politico e culturale del neofascismo e di parte della destra italiana, questo universo che si era riconosciuto, più o meno, nella svolta del 1994-95 si ritrova spezzettato in vari tronconi, Fratelli d’Italia, La Destra, Fiamma Tricolore che, semmai dovessero riunirsi, si potrebbero attestare alle cifre elettorali che il Msi aveva al momento delle elezioni politiche del 1992. Una sconfitta pesante per un mondo che alle elezioni del 1994 aveva ottenuto un ottimo successo con il 13,47% dei voti, presentandosi come Destra di governo e uscendo dal ghetto politico nel quale era stata rinchiusa dal 1960 in poi. Una sconfitta, però, che viene da lontano e che trova parte delle sue ragion d’essere proprio in quella trasformazione dal Msi ad An che si articolò dalla prima segreteria Fini (1987-90) alla seconda (1991-95). Questo periodo di transizione, al quale la storiografia italiana, soprattutto in passato, ha dedicato una certa attenzione , è l’oggetto del presente saggio; saggio che intende rileggere quel passaggio cruciale per il neofascismo italiano, evidenziandone gli elementi di successo, che avrebbero garantito per molti anni a quella classe dirigente i più alti onori della politica italiana, e gli elementi di criticità che avrebbero portato al disfacimento organizzativo e alla conclusione che è, dopo la pesante sconfitta di Gianni Alemanno alle elezioni per la carica di sindaco di Roma nel 2013, sotto gli occhi dell’opinione pubblica.

La scelta di Almirante

La nomina di Fini alla segreteria del Msi in occasione del XV congresso del partito (Sorrento, 10-13 dicembre 1987) non avvenne per caso. Essa fu frutto di un accordo di vertice tra alcune correnti presenti e attive all’interno del partito e, soprattutto, fu imposta dall’allora segretario del Movimento sociale italiano, Giorgio Almirante, che vedeva nel giovane esponente missino il suo delfino. Che Fini fosse il protegé di Almirante non vi erano dubbi, dal momento che tutta l’iniziale carriera del ‘bolognese’ avvenne sotto le ali protettive del segretario; fu Almirante a imporlo come segretario del Fronte della Gioventù nel giugno del 1977, malgrado la vittoria ottenuta dal brillante esponente della Nuova Destra Marco Tarchi ; fu sempre il segretario a imporlo come candidato alla Camera dei Deputati per la circoscrizione di Roma nel 1983, dove Fini risultò il primo dei non eletti, entrando in Parlamento per l’opzione esercitata da Almirante in suo favore . Dunque, un curusus honorum tutto interno al partito e all’ombra di un protettore che a partire dal XII congresso del Msi (Napoli, 5-7 ottobre 1979) aveva imposto un controllo così verticistico del partito, da far parlare di “cesarismo almirantiano” . La scelta del 1987 non deve sorprendere, quindi, anche se dietro di essa ci sono motivazioni che vanno al di là della giovane età del futuro segretario, che lo favorirono agli occhi di Almirante rispetto alla candidatura di Franco Servello, vecchio e fidato esponente missino. In effetti, la decisione del leader maximo è comprensibile se si tiene presente il cammino che egli aveva percorso dal momento dell’assunzione della segreteria nel 1969, dopo la morte di Arturo Michelini. Nei primi anni Settanta, infatti, il Msi aveva cercato di rilanciare il proprio ruolo nella società italiana sia attraverso un rinnovato impegno attivistico che lo aveva visto cavalcare l’ondata di protesta partita da Reggio Calabria (1970), sia risultando determinante per l’elezione di Leone alla Presidenza della Repubblica (1971), sia, infine, lanciando, dapprima il Fronte Articolato Anticomunista (1970) e , successivamente, varando il progetto Msi-Destra Nazionale (1972); progetti che tentarono di allargare il bacino elettorale del neofascismo italiano, guardando a una più vasta area di destra presente nel paese che non vedeva più nella Dc un valido baluardo anticomunista. In questa fase, grazie anche all’apporto ideologico di un intellettuale guadagnato alla causa missina come Armando Plebe, la segreteria di Almirante cercò di rafforzare la presentabilità del partito, facendogli acquisire simpatie in ambienti che esulavano dal tradizionale retroterra neofascista. Una dimostrazione di tale tentativo di trasformazione o di evoluzione imposta dal segretario, fu la famosa dichiarazione di Almirante, resa in una Tribuna Politica del 1972, nella quale egli “dopo aver esaltato la democrazia e la libertà come ‘valori prioritari e irrinunciabili’, si spinse addirittura oltre, definendo i valori che hanno animato gran parte della Resistenza, valori di ‘libertà’” . Un’affermazione che, al di là del carattere più o meno strumentale, fu senz’altro significativa sulle labbra di un esponente politico che non solo aveva partecipato alla Rsi, ma che aveva da sempre difeso l’eredità del fascismo, facendone la pietra angolare dell’identità del suo partito. Questa timida apertura almirantiana, come sottolineato, fu accompagnata, politicamente, da un lato dal varo della formula della Destra Nazionale e, nel novembre del 1975, dalla Costituente di destra, “una formazione satellite che [facesse] da ponte verso l’anticomunismo cattolico e nazional-liberale” . I tentativi di uscire dalla riserva indiana del neofascismo, però, non ottennero gli effetti sperati per una serie di contraddizioni interne e di circostanze esterne. Innanzitutto, pur ottenendo un notevole successo elettorale alle elezioni del 1972 (8,7%), il Msi non riuscì a superare l’attesa quota del 10% dei voti, fallendo nel tentativo di condizionare da destra la Dc e impedendole di aprire al Pci di Berlinguer. In secondo luogo, la responsabilità dei giovani sanbabilini di destra negli incidenti che avrebbero portato alla morte dell’agente di pubblica sicurezza Antonio Marino nell’aprile del 1973 incisero profondamente sull’immagine del partito, vanificando il tentativo di Almirante di accreditare una visione ‘presentabile’ del Msi presso l’elettorato moderato italiano. Il Msi tornò ad essere un partito in cui erano presenti dei violenti e il progressivo coinvolgimento di alcuni suoi esponenti nella stagione del terrorismo comportò non solo una netta chiusura politica e ideologica nei suoi confronti, ma il consumarsi della scissione interna al partito tra la corrente più moderata che voleva tagliare i ponti con l’eredità del fascismo ed essere un soggetto politico dialogante con gli altri partiti (i demo nazionali) e quanti, invece, vedevano nella continuità ideale con quell’esperienza la base della propria esperienza umana e della propria militanza politica (il mondo giovanile largamente influenzato dalle idee e dalla figura di Pino Rauti). Alla base di questo fallimento politico, che si concretizzò con il cattivo risultato elettorale del 1976, vi fu senz’altro il fatto che il processo di ‘modernizzazione’ del Msi era stato appena abbozzato e non aveva potuto decollare per tutte le circostanze sopra elencate e, da ultimo, per il carattere bloccato della democrazia italiana di quegli anni, nella quale, fra l’altro, il Msi scontava il suo difetto di legittimità politica agli occhi dei partiti dell’arco costituzionale e, soprattutto, della Dc che non voleva che alla sua destra si costituisse un polo di riferimento moderato, e non neofascista, che potesse toglierle consensi. Gli anni successivi, con la recrudescenza della violenza politica nel 1977, videro il Msi arroccarsi nella cittadella assediata, riaffermando la sua identità fascista e il suo carattere di alternativa al sistema partitocratico. Fu solo a partire dagli anni ’80, con la conclusione della stagione del terrorismo, con una progressiva storicizzazione del fascismo attuata grazie all’importante opera di Renzo De Felice e con le aperture, piuttosto strumentali in verità, e con le dichiarazioni in sede di consultazione del leader socialista Bettino Craxi in occasione del varo del suo governo nel 1983 (i rappresentanti del Msi furono invitati alle consultazioni) che si assisté a un ‘disgelo’ politico che permise al Msi di ottenere una certa visibilità politica, che si concretizzò nel progetto di riforma della Repubblica, attraverso l’adozione del Presidenzialismo e l’elezione diretta dei sindaci che, in effetti, costituì il principale terreno di dialogo e di incontro politico, in quegli anni, con gli altri partiti . Certo è che, come sottolineato da Marco Tarchi, questa nuova fase politica lanciò alla segreteria Almirante una sfida difficile da decifrare, perché

Nel partito predomina ancora la logica dell’autoconservazione. Manca nella sua classe dirigente la concezione di poter svolgere un ruolo propulsivo. Essa è convinta che la sua missione si esaurisca nella difesa di un certo patrimonio storico, più sentimentale che politico: al massimo pensa di poter contribuire ad operazioni di contenimento del pericolo comunista, ma non certo di poter mettere in moto iniziative autonome capaci di coinvolgere altre forze. Nel momento in cui si aprono nuovi margini di manovra, il Msi è quindi del tutto impreparato ad approfittarne. Si fa prendere dal timore tipico di chi è sempre rimasto nella propria tana e non se la sente di uscire allo scoperto. Avverte il rischio di mettere a repentaglio l’identità nostalgica, cioè lo strumento essenziale attraverso cui ha consolidato il suo rapporto con un’area di opinione limitata, ma non irrilevante. Spendersi in intese con altre forze, entrando in un gioco di riconoscimenti necessariamente reciproci, vorrebbe dire compromettere in qualche misura una legittimazione basata su uno scenario catastrofico: da una parte i missini, isolati eredi di una passata grandezza dell’Italia, e dall’altra tutto l’arco costituzionale, espressione della pochezza e della miseria dell’oggi. Rinunciare a questa auto rappresentazione appare pericoloso .

La segreteria missina, dunque, non riuscì a elaborare una seria revisione ideologica tale da porre il partito in grado di dialogare da pari a pari con le altre forze politiche. È probabile che in Almirante pesasse ancora lo choc della scissione del 1976 e perdurasse la convinzione che i tempi non fossero ancora maturi. In effetti, era difficilmente ipotizzabile che il Msi, a quella data, potesse evolversi in senso liberal conservatore, dal momento che quell’area politica era coperta dal Pli e, soprattutto, dalla Dc ; ciò non toglie, però, che la direzione del Msi non riuscì a elaborare, di fronte agli impulsi provenienti dall’esterno, un progetto politico che superasse il refrain dell’immutabile validità del fascismo, dell’alternativa al sistema e della lotta antipartitocratica. Questo immobilismo politico e programmatico portò alla flessione elettorale delle elezioni del 1987, che indussero il partito a riflettere sulla bontà della linea fino ad allora seguita, evidenziando un certo esaurimento di quel nostalgismo che per anni era stata una riserva elettorale nei momenti di difficoltà. A quella data, dunque, ad Almirante restavano poche alternative: sostenere Servello come personaggio in grado di riaffermare il legame identitario con il passato fascista e, quindi, proseguendo la politica inaugurata dal 1977 in poi, oppure appoggiare un uomo come Fini, giovane, di bell’aspetto e, soprattutto, estraneo all’esperienza fascista e, dunque, maggiormente in grado di affrontare quelle sfide che il sistema politico italiano stava ponendo al partito. La definitiva scelta di Almirante in favore di Fini come successore fu senz’altro quella più coraggiosa e lungimirante; il segretario del partito, convinto di poter proteggere il suo delfino nei suoi primi passi, vide nel giovane deputato la persona giusta per riproporre quel restyling del Msi che, probabilmente, andò ben oltre le proprie aspettative.

Come sottolineato, Fini uscì vittorioso nei confronti dell’altro contendente, Pino Rauti, grazie al sostegno di Almirante e alla convergenza su di lui della maggioranza delle 6 correnti che si erano presentate al congresso . Nell’assise di Sorrento non vi fu solo la replica dello scontro Almirante-Rauti che si ripeteva dalla fine degli anni Settanta, ma un confronto tra due modi di intendere la propria adesione al fascismo, in quanto, come sottolineato da Roberto Chiarini, “Fini confina la sua ‘diversità’ nell’astratto, e un po’ innocuo, mondo dei valori, mentre il rivale nutre l’ambizione pericolosa di farla calare nel più concreto mondo della politica. Il punto di partenza è lo stesso. L’approdo è diverso. Per Rauti è una velleitaria (e rivoluzionaria) deriva anti-occidentale e anti-capitalista. Per l’erede di Almirante è un ritorno all’abbraccio con l’Italia tradizionalista e conservatrice senza che ciò comporti la rottura con le antiche fedeltà” . Per il momento, prevalse la linea di Fini e il giovane segretario si mosse, nella sostanza, nel solco della tradizione di Almirante, del quale tentò, durante tutta la sua segreteria, di rafforzare la carica simbolica, soprattutto dopo la morte del malato segretario . In effetti, la rapida scomparsa di Almirante e di Pino Romualdi (23 e 22 maggio 1988) non solo destabilizzarono fortemente un mondo missino uscito profondamente lacerato al proprio interno dopo il congresso di Sorrento, ma privarono Fini di quella tutela di cui aveva fortemente bisogno per sostenere la sua traballante segreteria. In questa situazione, Fini si trovò nella difficile situazione di respingere gli attacchi che provenivano dall’opposizione di Rauti e di Menniti e, nel contempo, di guidare un partito che era in una situazione di trasformazione e, dunque, anche di crisi, sia culturale che politica.

(…)

Conclusioni

Come indicato nell’introduzione, scopo di questo saggio è stato quello di descrivere la transizione dal Msi ad An, a rendere conto di un’evoluzione complessa e articolata, piena di chiaro-scuri. È difficile, però, a conclusione del presente lavoro evitare di tirare le somme di questa evoluzione, evidenziando, appunto, gli elementi di forza e, al tempo, di debolezza della strategia sostenuta da Gianfranco Fini. E, ovviamente, diamo la precedenza alla pars costruens. Malgrado certe critiche di parte della storiografia, il fatto di aver traghettato un partito e, soprattutto, una comunità che per decenni era stata esclusa (e si era autoesclusa in nome di una superiorità morale rispetto agli altri) dal sistema politico democratico verso i lidi della liberal-democrazia ha rappresentato un indubbio successo; E se è vero che le posizioni della segreteria erano indubbiamente più avanzate e ‘democratiche’ rispetto a quelle del proprio elettorato di riferimento e di parte della dirigenza, è pur vero che difficilmente avrebbe potuto essere il contrario, vista la storia che aveva caratterizzato il Msi; mutatis mutandis questa è la stessa situazione che aveva caratterizzato la storia della Democrazia cristiana nel periodo degasperiano, con una dirigenza spostata in senso progressista rispetto a un elettorato conservatore e, a tratti, retrivo. Nel far ciò, va dato atto a Fini di aver cercato, probabilmente con un discreto risultato, di introiettare elementi liberali all’interno di un partito che a lungo li aveva visti come qualcosa di avulso dalla propria storia, contribuendo al recupero ‘democratico’ di una comunità che era cresciuta tra i miti evoliani.

Un traghettamento, dicevamo, avvenuto, per di più, senza grosse scissioni interne e, soprattutto, sull’onda di un risultato elettorale che la destra italiana non aveva mai ottenuto. E se è vero che la strategia finiana può essere sovrapposta, in filigrana, a quella perseguita da Almirante, con la fortuna di essersi trovato, sia dal punto di vista internazionale con il crollo del comunismo sia dal punto di vista interno con Tangentopoli, in una situazione più fluida e favorevole a un’evoluzione del sistema politico (senza la quale il Msi avrebbe visto un’ulteriore contrazione elettorale), è pur vero che in politica essere l’uomo giusto al momento giusto, al di là della fortuna personale, conta e, nel caso di Gianfranco Fini, ha contato molto.

Le stesse critiche spesso rivolte al segretario di non aver avuto idee proprie, ma di essersi affidato alle teorizzazioni di Fisichella e alle capacità ‘cardinalizie’ di Tatarella, nulla toglie alla statura di un leader che, pur nella replica del cesarismo almirantiano all’interno, ebbe senz’altro il merito di assecondare, inizialmente in maniera alterna, un progetto che, probabilmente anche per regioni anagrafiche, era a lui più vicino. Da ultimo va riconosciuto che, assecondando l’idea di An, Fini ha risolto l’equivoco di fondo del rapporto tra destra e fascismo, facendo sì che la destra italiana superasse l’identificazione con il fascismo, recuperando a quest’area, grazie anche allo scompaginamento politico del 1992, una serie di culture e filoni politici che non si erano fino a quel momento identificati con la destra vuoi per la presenza della Dc, vuoi per una certa ‘impresentabilità’ degli eredi della Repubblica Sociale. Questi aspetti, a parere di chi scrive, rappresentano senz’altro un indubbio successo di Fini e, in generale, per la destra italiana che, senza questa necessaria trasformazione, mai avrebbe pensato di avere una dimensione pari a quella delle destre europee, arrivando a sedere tra i banchi del Ppe. Come spesso, accade, però, alla pars costruens segue una pars destruens e agli elogi seguono le critiche.

E la critica maggiore verte proprio sulle modalità con cui questa transizione della destra italiana avvenne. Pur avendo sottolineato la rapidità delle trasformazioni in atto nel sistema politico e le sollecitazioni che provenivano al Msi di una pronta ‘presentabilità’, è indubbio che il processo che portò dal Msi ad An avvenne con troppa celerità. Ciò impedì una seria riflessione sia sulle origini del Msi sia sul ruolo che tale partito avrebbe dovuto svolgere in futuro. E tale mancanza di riflessione va indubbiamente ascritta a Fini e alla sua classe dirigente; non solo perché a partire dalla sua seconda segreteria, il segretario esercitò un controllo sempre più pervasivo del partito, annullando il dibattito interno e scompaginando le correnti (che erano state fonte di debolezza ma anche di ricchezza argomentativa), ma anche perché, di fronte al successo elettorale, si pensò ad An, come sottolineato, come una strategia, come un’opportunità per vincere le elezioni, senza riflettere a sufficienza su i contenuti da dare al nuovo partito. In tal modo, la cosa più facile fu quella di appropriarsi di filoni culturali e politici mai presenti nel dna missino, da Sturzo a Giolitti, da Croce a Gramsci, imponendoli a una comunità a tratti disorientata e rigettando qualsiasi ipotesi di riflessione sul passato fascista. L’invito a riflettere sul fascismo, considerando quanto di positivo vi era stato nell’esperienza del regime, più volte espresso da un’intelligenza lucida come quella di Beppe Niccolai, cadde nel vuoto e la sua morte privò di ulteriori stimoli la riflessione. Se era giusto, infatti, evitare che fascismo e destra venissero concettualmente sovrapposti, era ed è parimenti evidente che la destra italiana doveva e deve fare i conti con il fascismo. In realtà, la segreteria, cercando di ottenere una maggiore legittimazione e, dunque, sfuggendo al ricatto antifascista delle sinistre, italiana ed europea, preferì considerare la questione del fascismo come una questione del passato, consegnata alla storia, sviscerata dagli storici e sulla quale non era necessario tornare. Ciò portò a una certa superficialità contenutistica di An e, soprattutto, alla perdita di radici e di punti di riferimento che avevano contraddistinto una comunità per oltre cinquant’anni.

Il rapido successo elettorale della nuova formazione, poi, in assenza di riferimenti culturali forti e ancoranti, vide l’affluire di un personale politico fondamentalmente estraneo alla cultura e al senso identitario missino e, soprattutto, caratterizzato da una certa dose di carrierismo politico e di pragmatismo che, ben presto, avrebbe portato al coinvolgimento di molti esponenti di An in scandali finanziari. In tal modo, una comunità che aveva perso rapidamente i propri riferimenti politici e ideali, vide i propri rappresentati coinvolti nell’affarismo partitocratico della cosiddetta seconda Repubblica, perdendo quel senso di superiorità morale e ideale che, ben illustrata da Alessandro Giuli, per anni l’aveva caratterizzata .

Da ultimo, è fallito, nella strategia finiana, proprio l’obiettivo di allargare i confini del Msi, dal momento che, eccettuati alcuni rappresentanti che per alcuni anni condivisero la parabola di An, da Fisichella a Selva, da Fiori a Savarese, per citarne alcuni, il nocciolo duro del nuovo partito, soprattutto negli anni successivi al ’94, venne tratto quasi esclusivamente dai quadri dell’ex Msi. I quadri che vennero recuperati, però, non furono quelli che avevano animato la vita del Msi per decenni, in un periodo in cui l’adesione a un partito come quello missino era caratterizzata da una profonda comunanza ideale e da un’onestà viscerale. No, sia i quadri che animarono la transizione, sia quelli che entreranno successivamente in An, seppur con le differenze dovute alle differenti esperienze personali vissute negli anni ’70 e ’80, furono composti da quella generazione di quarantenni e di cinquantenni, della quale il segretario faceva parte a pieno titolo, che, nata nel dopoguerra, non aveva alcun rapporto ideale con il fascismo e, spesso, si era avvicinata al Msi e poi ad An con la speranza di percorrere una carriera politica che avrebbe consentito loro una degna sopravvivenza. Se tale pragmatismo costituiva senz’altro un punto di forza nella fase di de ideologizzazione della vita politica italiana, ancor oggi in atto, è indubbio che la mancanza di radici profonde, quelle che “non gelano mai”, avrebbe portato allo sfacelo di un patrimonio politico e culturale, quello missino, senza possibilità di ritorno.

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Andrea Ungari

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