Re-Visioni. Django e la passione di Tarantino per gli spaghetti western

djangoQuentin Tarantino non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per il cinema italiano, dichiarando il suo amore per generi come la commedia anni 70 e gli spaghetti western. Così la creatura cinematografica del 1966 di Sergio Corbucci, Django, vero mito dell’epoca del cinema western all’italiana, quella de Il bello il brutto e il cattivo, non poteva sfuggire al suo interesse registico.

Inoltre il regista americano è famoso per i suoi omaggi ai film del passato che godono del suo personale apprezzamento. Scritto e diretto dallo stesso Tarantino, Djanko Unchained sin dalla sua presentazione, avvenuta nel 2012, sembrò promettere uno spettacolo degno del suo predecessore italiano.

Il cast scelto dal regista per questo western originale, e per certi versi inaudito, è di primo piano: da una parte interpreti già protagonisti d’altri suoi lungometraggi (Christoph Waltz, Samuel L. Jackson), dall’altra attori mai apparsi in suoi film ( Jamie Foxx e Leonardo Di Caprio).

Trama

Il dottor King Shultz (Christoph Waltz), un cacciatore di taglie d’origine tedesca, dona la libertà allo schiavo di nome Django in cambio del suo aiuto per rintracciare un gruppo di fuorilegge che sta braccando.

Dopo l’eliminazione della banda dei ricercati, Shultz e Django iniziano una collaborazione piuttosto proficua come bounty killer. I due condividendo pericoli e avventure divengono amici. Il dottore scoprirà che Django è alla ricerca di sua moglie Broomhilda venduta allo schiavista del sud Calvin Candie ( Leonardo Di Caprio). L’europeo, essendo un avventuriero romantico con un bizzarro senso dell’onore, propone un patto al suo nuovo amico: questi l’aiuterà per una stagione intera a dar la caccia ai fuorilegge, dopodiché sarà lui ad assisterlo nel tentativo di liberare sua moglie dal giogo della schiavitù. Ha inizio così un’impresa piena di rischi, vissuta nelle lussureggianti piantagioni del Mississippi, tra lerce capanne di schiavi, paludi impenetrabili, campi di cotone e la brutalità dei negrieri.

Parlare d’un film di Tarantino è cosa semplice e complessa ad un tempo. Semplice perché la sua arte personalissima e bizzarra ci appassiona e ci sorprende a ogni occasione: complessa poiché la sua poliedricità di regista, la sua iperbolica traccia narrativa e le sue invenzioni danno la cifra inconfondibile del suo cinema. Uno stile il suo, che s’è fatto genere: il genere di Quentin Tarantino. E allora com’è il suo Djanko? Come ha saputo il padre di Pulp Fiction affrontare il tema western? Grande appassionato di cinema d’epoca, cinefilo impenitente e attento come pochi, cultore dell’epoca d’oro, tutta italiana, dei lungometraggi di Sergio Leone e company, egli ne ha elaborato la sua personalissima rilettura. Ma prima si trattare gli aspetti più registici di quest’opera dal grilletto facile, ci piace parlare un poco del cast.

In primis l’icastico e denso Christoph Waltz che impersonò magnificamente il crudele colonnello delle SS Hans Landa in Bastardi senza gloria, e che qui offre un’interpretazione da Oscar. A seguire, uno strepitoso Di Caprio che quando interpreta il cattivo, ovvero lo schiavista Calvin Candie, sfiora la perfezione artistica. Irriconoscibile e assai efficace, nei panni dell’intrigate e perfido maggiordomo di Mr. Candie, Samuel L. Jackson (un’altra vecchia conoscenza tarantiniana). Buona la prova di Jamie Foxx che però resta un gradino al di sotto delle altre. Vi sono anche un paio di cameo deliziosi: quello del nostro Franco Nero che s’imbatte nel personaggio di Foxx, come a dire il vecchio e il nuovo a passarsi le consegne; e quello dello stesso Tarantino in una scena che è vera dinamite.

Questo è un film giocato su diversi aspetti, tutti peculiari. Le scene d’azione sono di livello assoluto. Certo, Tarantino ci ha abituato, sin dai tempi de Le Iene e Kill Bill, ad alcune delle sequenze più spettacolari, e dal gusto splatter, che si siano mai viste sul grande schermo. Ma qui si supera. Indimenticabile la carica notturna dei cavalieri fiammeggianti, in stile Ku Klux Klan, sulle note travolgenti della verdiana Dies Irae. Peccato che il dialogo demenziale susseguente, tra i cattivi incappucciati in perfetto stile Tarantino, sia un po’ prolisso, ma prepara una scena col botto.

Strepitosi gli scontri tra pistoleri, come pure la mirabolante esercitazione di Djanko che spara ad un pupazzo di neve (geniale). Struggente, quanto straniante, la scena della fustigazione di una giovane schiava mentre sullo sfondo altre due donne giocano sull’altalena. Degna del finale calibro 9 di Scarface, la carneficina messicana nella villa di Candie, dove il regista affascina con veri colpi da maestro (un paio faranno scuola). Il film appare crudo, sanguinolento, eppur magnifico. Tarantino è insuperabile nel tratteggiare, con pennellate vermiglie, il suo capolavoro da pistolero della macchina da presa.

La sua è un’estetica catartica, un rituale di sangue che celebra la narrazione d’una storia fatta per colpire nel segno colla precisione d’un tiratore scelto. I temi: la vendetta, la libertà, la lotta per i diritti dei neri. Il metodo: sconvolgente, truculento, deliziosamente spietato. In contraltare delle scene da idillio. Alcune inquadrature naturalistiche da quadro rinascimentale, tocchi di colore e di poesia in uno scenario a tinte fosche. Il cinema di Tarantino, giunto alla sua apoteosi artistica, è cinema di contrasti, di scenografie perfette, di musiche evocative, di personaggi archetipici, di suggestioni sensuali e di citazioni… Un profluvio.

Ma allora Django come si pone nella filmografia tarantiniana? Non possiamo dire se sia meglio o peggio di altri film del regista: quantunque, di sicuro, è una delle sue pellicole più riuscite. Il film è una conferma della sua bravura, e assieme una grande prova di maturità artistica. Nel contempo è anche innovativo, come se tentasse di dirci qualcosa di nuovo, un sussurro che arriva fino al fondo dell’animo dello spettatore. Djanko è un monumento appassionato a un’epoca mai tramontata. Film omaggio, ultimo discendente degli spaghetti western, frontiera estrema d’un mondo d’eroi e mascalzoni dagli stivali sporchi e le mani callose.

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Max Gobbo

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